Il 1956 in versione Movimento 5 Stelle

La cacciata dei quattro senatori

Forse i militanti Grillini non lo sanno, ma questa nuova pioggia di espulsioni apparentemente illogiche e insensate, nel Movimento Cinquestelle, sembra una ripetizione parodistica e grottesca (lo diceva il vecchio Carlo Marx, «La storia si ripete due volte, la prima in forma di dramma, la seconda in forma di farsa») delle purghe degli anni Trenta e cinquanta nel Pcus. L’espulsione a mezzo web, dopo che era fallita la sfiducia nel gruppo, è un maldestro remake in salsa streaming di certe procedure staliniste e cominternite tipiche degli apparati di partito, quelle per cui le organizzazioni veterocomuniste centralizzate espellevano alcune delle loro migliori energie sulla base dell’assunto per cui epurandosi ci si rafforza.

Le espulsioni del M5s sono apparentemente illogiche perché, secondo i canoni della politica tradizionale, sono prive di una ragione politica immediatamente visibile. I quattro senatori dissidenti, tanto per dire, avevano dissentito assai poco «Ho votato per circa tremila volte – mi spiegava ieri sconvolto il senatore Luis Orellana – e, a parte le questioni di coscienza per cui c’era libertà, non l’ho mai fatto in dissenso dal mio gruppo». Hanno espresso qualche educato distinguo, i quattro senatori, hanno sempre accettato la disciplina del gruppo, anche quando non erano d’accordo con i dettami della linea Grillo-Casaleggio. Se quindi il manifesto ideale del Movimento fosse la tanto decantata democrazia diretta, e se il leader del M5s, Beppe Grillo, fosse – come ci ha spesso raccontato – solo “un megafono”, non dovrebbe compilare liste di prescrizione a mezzo web.

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Ma siccome la vera faccia di questo carisma mediatico è quella per cui Grillo ha gridato in faccia a Renzi “Io non sono democratico!”, e lo ha fatto con orgoglio, è normale che ogni dissidio diventi dissidenza e anche inevitabile che, per un principio para-totalitario, la contraddizione del Capo diventi il vero tabù. Seguendo la logica autocratica, che è insieme Novecentesca e postmoderna, Grillo non puó accettare nessuna contraddizione del suo messaggio, che deve essere univoco, granitico e centralizzato, come quello di «coloro che avevano scambiato il marxismo-leninismo per il Vangelo secondo Stalin» (Giorgio Gaber). In questa logica del “meglio pochi ma buoni”, meglio allineati e ortodossi che critici. «Se qualcuno non è d’accordo fuori dai coglioni», come disse Grillo ai tempi della prima clamorosa espulsione, quella di Giovanni Favia è il vero dogma di fede del Movimento a 5 stelle. Porsi dei problemi, chiedersi se sia giusto l’ostruzionismo che porta Roma Capitale al fallimento – per esempio – diventa solo eresia.

Ecco perché chi dubita del Capo (come chi dubitava del partito) in questa logica è fuori: per questo fa schifo anche il tratto disumano di questa espulsione. Tra i dissidenti non ci sono traditori, ma forse proprio coloro che di più hanno creduto a Grillo, quando ancora parlava di valori democratici: per questo l’ultima infamia, quella di cui questa mattina si è macchiato il FattoQuotidiano, è definire queste persone perbene degli “Scilipoti”. Mimmo Scilipoti è l’incarnazione dell’eterno trasformismo italiano, Campanella, Battista, Bocchino e Orellana sono delle persone perbene: per questa la purga che fortifica il principio di non contraddizione pubblicitaria del movimento è quello che ucciderà (anzi, sta già uccidendo) una buona parte delle sue ragioni ideali. Il 2014 sarà per il Movimento 5 stelle quello che per il movimento comunista fu il dramma del 1956, dove chi dissentiva dell’invasione dell’Ungheria (ad esempio Italo Calvino e Antonio Giolitti) se ne andava con amarezza. Alcuni intellettuali europei scrissero allora un libro che aveva fatto epoca, “Il Dio che ha fallito”. Adesso, siccome siamo alla ripetizione farsesca di una storia già celebrata, il titolo più appropriato dovrebbe essere “Il comico che ha fallito”. 

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