La primavera bosniaca senza leader e in mano ai vandali

Disoccupazione giovanile al 60%

Alla fine della giornata di mercoledì 5 febbraio, alla notizia dei ventitré feriti e dei ventisette arrestati dopo la manifestazione di Tuzla, centro industriale del nord della Bosnia Erzegovina, per molti era chiaro che qualcosa era definitivamente cambiato. Non per la protesta in sé, anzi. Il 2013, nel Paese, aveva già visto grandi mobilitazioni generali (tra di esse, soprattutto, la bebolucija, la rivoluzione dei bebè, che aveva portato davanti al parlamento bosniaco quasi ventimila persone), ma nessuna era mai degenerata così rapidamente in violenti scontri tra forze dell’ordine e manifestanti.

Quello che è andato in scena a Tuzla, infatti, è stato per molti versi un copione inedito: qualche centinaio di disoccupati, rimasti senza lavoro dopo la chiusura delle fabbriche in cui erano impiegati, si presentano davanti al palazzo del governo cantonale, una delle dieci unità amministrative in cui è suddivisa la Federacija Bosne i Hercegovine, una delle due entità del Paese. Chiedono che alla loro situazione sia trovata una soluzione. Ma il primo ministro del cantone, Sead Causevic, sbatte loro la porta in faccia. Rifiuta di ricevere i disoccupati, sostenendo che «tutto quello che chiedono sono maggiori sussidi», e che questa richiesta è «inaccettabile, per le fragili finanze dell’amministrazione locale». A quel punto i manifestanti decidono di irrompere nella sede del governo locale, sfondando i cordoni di sicurezza. La polizia, però, a differenza che in passato, sceglie immediatamente di passare all’uso della forza: manganelli, gas lacrimogeni, cariche. Secondo testimonianze oculari, puntualmente riprese dai media, le forze di sicurezza non risparmiano nemmeno anziani, donne e bambini. Alla fine della giornata, non solo Tuzla, ma l’intero Paese, è come in stato di choc.

I manifestanti, dopo la giornata iniziale, si riorganizzano. Annunciano che non desisteranno dalla lotta. Immediatamente, già il giorno successivo (giovedì), in alcune delle principali città bosniache (Sarajevo, Mostar, Bihac) si organizzano dei cortei a sostegno dei lavoratori di Tuzla. All’inizio lo scopo delle proteste è principalmente il rilascio dei manifestanti ancora detenuti dalla polizia. Ma si nota già la tendenza delle piazze a radicalizzarsi. È bene notare che si tratta, in fondo, di una protesta ridotta: la partecipazione rimane nella dimensione delle centinaia di persone.

A fare impressione, però, è la modalità con cui si esprime la contestazione. Non esiste, infatti, alcun tipo di programma. Ci si limita a lanciare pietre e uova contro le istituzioni. È un grande sfogo, l’espressione di una frustrazione collettiva. A Tuzla, il piano terra del governo cantonale viene distrutto. Alcuni vandali riescono anche a introdursi nell’edificio e ad appiccare un incendio che resta circoscritto. Per Zdravko Grebo, giurista bosniaco, si tratta concretamente della «possibilità della tanto attesa ‘primavera bosniaca’: manca un coordinamento a livello statale, manca un leader, ma questo è sicuramente l’inizio del risveglio».

Circostanza molto significativa, per quanto le proteste tendano a rimanere concentrate nel territorio della Federacija croato-musulmana, è che alcune città di Republika Srpska (tra cui la capitale dell’entità, Banja Luka) decidono anch’esse di mobilitarsi, nonostante siano storicamente molto distanti da Sarajevo. Per una volta le due metà del Paese, divise dalla guerra degli anni Novanta, scendono contemporaneamente in piazza con le stesse motivazioni, in una battaglia comune.

È solo venerdì 7 febbraio, tuttavia, che la situazione nel Paese assume i contorni di una vera e propria emergenza. In più di trenta città bosniache vengono indette delle proteste. A Tuzla, Mostar, Zenica e Sarajevo scoppiano disordini gravissimi. In particolare, nella capitale, i manifestanti incendiano il palazzo del governo del cantone Sarajevo, la sede del municipio, la Presidenza della Bosnia Erzegovina. Le fiamme non risparmiano neppure l’archivio storico, che conteneva dei documenti importantissimi, risalenti in alcuni casi alla fine dell’Ottocento e che erano riusciti a sfuggire persino alla guerra durante gli anni Novanta.

Nel corso degli scontri, i feriti sono quasi duecento, principalmente tra le forze dell’ordine. Le distruzioni fanno da contraltare all’impotenza della politica. Gli appelli alla ragionevolezza si sono susseguiti, così come le condanne della violenza, sin da mercoledì: «Tutti i cittadini hanno diritto a manifestare pacificamente la loro opinione, non a distruggere i palazzi del governo», ha dichiarato Nermin Niksic, il premier della Federacija, l’entità dove le proteste sono più diffuse (e fuori controllo). «Invitiamo tutti a evitare atti di violenza», è stata l’esortazione della missione locale dell’Ue, nelle parole del portavoce Andy McGuffie. La politica ha dato anche qualche segnale di apertura. A Tuzla i manifestanti arrestati sono stati rilasciati già il giorno successivo. Ma si tratta di concessioni che per chi protesta ormai significano poco o nulla. Perché quello che si attacca, ora, è una classe politica nel suo complesso.

Un paese in crisi
Dopo gli avvenimenti del 7 febbraio la situazione si è stabilizzata. In alcuni casi, come nel Cantone di Sarajevo o in quello di Bihac, le proteste hanno persino portato alle dimissioni (o alla fuga) del primo ministro del cantone. I disordini e i saccheggi hanno avuto un effetto traumatico sulla cittadinanza. In molti qui riconoscono la somiglianza tra le fotografie scattate dopo le devastazioni e le immagini della Sarajevo stretta d’assedio, durante la guerra del 1992-1995. Ma tanta violenza ha avuto anche il merito, quasi paradossale, di sottolineare il lato migliore dei cittadini. Gli abitanti di Tuzla, Zenica, Sarajevo hanno scelto di pulire da sé i danni causati dai vandali, decidendo anche di isolarli nel corso delle prossime proteste.

Perché le proteste, questo sembra sicuro, non finiranno molto presto. «Esistono chiari indizi del fatto che le manifestazioni riprenderanno», ha assicurato nella giornata di ieri il direttore dell’amministrazione della polizia federale, Dragan Lukac. I “rivoltosi bosniaci” non intendono mollare. Da vent’anni la Bosnia Erzegovina attende un cambiamento che non arriva, spossata dalle proprie pessime condizioni economiche (la disoccupazione, altissima, è oltre il 40%, tra i giovani sale al 60%; anche se occorre tenere conto di chi un lavoro ce l’ha, senza dichiararlo) e da una classe politica che oramai è divenuta proverbiale nella propria incapacità e corruzione. Il Paese, finora, è stato condannato in una sorta di limbo perenne, in cui nessun progresso è stato fatto né verso il miglioramento del tenore di vita dei cittadini, né verso mete politiche quali – ad esempio – l’integrazione europea.

«La Bosnia Erzegovina è disperata, ci aspettano senza dubbio altre manifestazioni di massa», ha recentemente dichiarato all’agenzia Anatolia il decano della facoltà di scienze politiche di Sarajevo, Sacir Filandra. «La crisi sociale è stata causata da una profonda crisi politica. E il tutto si è poi tramutato in una crisi esistenziale. Lo sanno tutti, che qui la gente vive molto male: in Bosnia Erzegovina esiste una grande differenza tra una minoranza che è ricca, e la stragrande maggioranza dei cittadini, che si sente minacciata dalla povertà e relegata ai margini della società. Ecco perché poi anche il ricorso alla violenza diventa accettabile, come mezzo per risolvere i propri problemi».

*http://rassegnaest.com/

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