La Spagna ha fatto il pieno di investimenti esteri. Nel 2013 sono stati 28 miliardi di euro con un aumento del 37% rispetto al 2012. La Germania è arrivata a 23 e l’Italia a 6,6. Un terzo della massa di liquidi è andata a finire direttamente nel «ladrillo». Il mattone. Dopo cinque anni di panico e di disperazione i prezzi delle abitazioni in alcune aree del Paese sono diventati così interessanti da trasformarsi in calamite.
Ciò non è una novità. Ma l’ingresso di Bill Gates nel fondo Fcc, un colosso delle costruzioni, ha fatto da cassa di risonanza a un trend di compravendite che risulta anche molto capillare. Non si tratta infatti solo di grandi fondi ma anche di piccoli investitori che nel complesso potrebbero portare da soli alla Spagna in tutto il 2014, secondo uno studio di Knight Frank, un assegno dal valore di 14 miliardi. Praticamente il doppio rispetto ai flussi di capitale finiti nell’immobiliare lo scorso anno. Secondo gli stessi analisti, oltre ai Fondi Usa (in Primis Blackstone e HIG Capital), molto attivi sono i belgi (+78% di transazioni), i francesi (+70) e i tedeschi (+35).
A dare un segnale positivo ai mercati ci sono stati anche eventi simbolici. Lo scorso anno Banco Popular e Santander sono riuscite a vendere parte dei rispettivi asset immobiliari (Aliseda e Altamira), la francese Carrefour ha acquistato in blocco 63 centri commerciali sparsi per la penisola (a soli 380 milioni di euro). È stata venduta per 150 milioni agli americani di Emin Capital la torre Agbar di Barcellona. Con altri 35 di investimento diventerà un Hyatt Hotel. A Madrid sono stati invece gli emiri di Abu Dhabi ad opzionare per 450 milioni una delle quattro torri Foster, le più alte della capitale. Un affare, se si pensa che nel 2007 Caja Madrid aveva investito per la stessa torre la bellezza di 830 milioni. Sono passati di mano anche edifici storici come l’Abc Serrano di Madrid e Corte Ingles ha ceduto una parte dei suoi mall per 150 milioni di euro.
In sostanza, a leggere i report di Cbre, colosso del real estate con sede a Los Angeles, con l’anno appena trascorso si è tornati ai livelli del 2008 e se le previsioni di Knigh Frank dovessero realizzarsi si tornerebbe ai livelli pre-crisi entro 12 mesi. «I dati sono affascinanti», spiega a Linkiesta Jose Manuel Martin Santonja, direttore generale di Econojuris, conglomerato con un portafoglio immobiliare di circa 700 milioni, «bisogna però contestualizzarli e fare una netta distinzione.
Da un lato, gli immobili nelle zone residenziali e nelle grandi città. Dall’altro, le seconde case della costa. Queste ultime dovranno attendere almeno ancora quattro anni perché il mercato rivolga loro interesse. Si tratta di seconde e terze case che diventeranno abbordabili nel momento in cui si sarà consolidata le situazione debitoria verso le banche in tutto l’interno della Spagna». Qui, al momento, le case di prima fascia vengono vendute tra il 30 e il 40% del prezzo di cinque anni fa, mentre quelle di seconda fascia anche un 10% al di sotto del costo puro di costruzione.
«Tutto ciò è possibile perché la quantità di immobili in mano alle banche è così ampia che ha di fatto superato il mercato gestito tra privati», continua Martin Santonja. «Di conseguenza gli istituti adesso offrono i mutui ricalcolati sul capitale e accettano di rifinanziarlo all’acquirente che subentra». In sostanza per una casa da 100mila euro si può subentrare con un mutuo da 60mila. Al contrario sui nuovi mutui non si va altre l’80% di capitale finanziato dalle banche. Ma quello che conta è stato sbloccare il nodo dei subentri, dopo il bail out dell’intero sistema bancario avvenuto più di due anni fa.
Una volta superato il dosso, sono arrivati gli stranieri che da quest’anno potranno concentrarsi ancor di piò sulle 650 mila abitazioni rimaste vuote. Un flusso abbondante di capitali esteri consentirebbe anche di sbloccare l’impasse che si è creato attorno a Sareb. La bad bank costituita nel 2012 per gestire 107 miliardi di euro di asset tossici delle banche (all’incirca 200 mila abitazioni) ha recentemente bloccato 160 progetti legati ad altrettanti cantieri rimasti a metà. Motivazione: più conveniente abbattere gli edifici piuttosto che terminarli. (S)vendere parte degli asset tossici consentirebbe di non fare tabula rasa e attendere i rialzi dei prezzi. E piano piano vedere all’orizzonte la ripresa.
Ci vuole pazienza. Ma la Spagna in questi anni ha insegnato agli altri europei ad averne. E ad aspettare il ritorno della fiducia dei mercati. Ricevendo in cambio qualche piccolo premio. Un altro settore che durante la crisi è cresciuto inaspettatamente è stato quello dei metalli e delle materie prime. Lungo la penisola iberica ci sono circa 3600 miniere con oltre 26mila lavoratori. Il settore a partire dall’inizio degli anni ’90 ha ricevuto circa venti miliardi di euro in sussidi e nonostante ciò (anzi in parte anche per questo) ha visto decrescere fatturati, capacità estrattiva e occupazione. A partire dal 2004, c’è stata una leggera inversione di tendenza per alcuni specifici comparti. Esempio, quello del rame.
Ma è solo durante la crisi che una parte del settore minerario ha cominciato ad andare in controtendenza. Il carbone, che occupa la maggior parte dei lavoratori, continua a sprofondare verso il fallimento. Una delle immagini più forti della crisi spagnola è stata la protesta dei minatori della regione delle Asturias, nel nord del Paese, che chiedevano al governo di rispettare il patto con sindacati (aiuti per tutto il 2012), per arrivare a una progressiva chiusura delle miniere nella regione non prima del 2018. Ci sono stati scontri con la polizia e la rivendicazione di tutti quei miliardi pubblici buttati nelle miniere.
Ma per i giacimenti di carbone non sembrano esserci grandi speranze. Al contrario, rame e altri minerali vedono nuova luce. Il 2012 ha riservato una sorpresa. Sono stati avviati o ri-avviati tre grandi progetti. Aguablanca, Las Cruces e Aguas Tenidas (nel sud della Spagna) dove si estrae principalmente rame ma anche piombo e gli investimenti complessivi – canadesi e svizzeri – hanno raggiunto il miliardo di euro. È vero, si tratta sempre di un settore devastato. Nel 1979 valeva più o meno il 4% del Pil, ora meno dello 0,4, ma il trend positivo (sempre togliendo il carbone) è proseguito nel 2013 e ciò può aiutare a fermare l’emorragia di disoccupazione nel comparto. C’è sempre l’incognita veti degli ambientalisti.
Ma si tratta di investimenti esteri che, spostando manodopera, consentiranno nel medio termine il riacquisto di altre case e un nuovo consumo di materie prime. Rame e mattone, in fondo, vanno d’accordo.