Si è in direzione di arrivo verso il nuovo governo Renzi e la domanda naturale da chiedersi è quali saranno le priorità programmatiche del nuovo esecutivo, tenendo conto della situazione problematica sia dal punto di vista economico – con un Pil in crescita nel quarto trimestre del 2013 di un non esaltante 0,1% rispetto al trimestre precedente – che politico, con un cambio di governo abbastanza traumatico nel suo svolgersi.
Sia consentita una premessa: chi scrive è dell’opinione che la priorità del governo Renzi non sarà di tipo economico, ma sarà in ogni caso determinante per il successo delle politiche economiche di lungo respiro. Cerchiamo di capire il perché, aiutati da modelli concettuali della teoria economica.
Paolo Manasse, in uno stringato ma ficcante post del suo blog ricorda come la situazione politica attuale possa essere ricondotta a un semplice problema di vincoli, economici e politici. La forza di Renzi all’interno del Pd, secondo Manasse, deriva dal suo essere riuscito – grazie al voto delle primarie – a cambiare i rapporti di forza (i vincoli) all’interno del suo partito. Ma che ne sarebbe invece di Renzi Presidente del Consiglio? Con tutta probabilità si troverebbe di fronte agli stessi vincoli, esterni (Ue, di bilancio pubblico) e interni alla propria maggioranza, già riottosa nel governo Letta, a promuovere riforme strutturali coraggiose. Gli spazi per risultati sostanzialmente differenti, a parità di obiettivi, sono quindi limitati da questa basilare obiezione.
A cosa sarebbe dovuta allora la scelta improvvisa – e a dir di molti imprudente – di cambiare schema, dopo aver ripetutamente annunciato di non averne alcuna intenzione? Un disegno twittato da Riccardo Puglisi, che utilizza la teoria dei giochi, può forse aiutare a sciogliere la matassa strategica a cui Renzi si è trovato di fronte.
Puglisi suggerisce che la strategia dominante di questo gioco sia dipendente dalla scelta dei piccoli partiti (del Ncd in particolare) di appoggiare Renzi in quanto, in questo caso, il loro ritorno politico sarebbe trainato dal successo del nuovo governo. Anche modificando i pay-off e rendendo la strategia di Renzi indipendente dalla decisione dei partiti di appoggiare o meno il suo governo rispetto a quello di Letta, la soluzione non cambierebbe. Renzi ha preferito rischiare l’impopolarità di breve termine per rilanciare un piano di riforme ambizioso, rendendo più realistica la possibilità di elezioni anticipate, evidentemente ritenuta molto improbabile con Letta al governo. La minaccia credibile di elezioni nel caso di ripetuti ostacoli all’azione riformatrice potrebbe quindi consentire di spazzare via i vincoli interni.
Da questo punto di vista, la mossa azzardata di Renzi può anche essere vista come una enorme presa di responsabilità, messaggio tra l’altro spendibile in una eventuale e non remota campagna elettorale. La minaccia, però, risulterebbe credibile solo con una nuova legge elettorale, perché l’attuale “bazooka” puntato contro i piccoli partiti rischia di sembrare solo un sonoro petardo, con eventuali elezioni che terminerebbero, con tutta probabilità, ancora in parità. Davvero Renzi vorrebbe rischiare di ritrovarsi di fronte a una nuova legislatura che ancora necessita di larghe intese? Seguendo questa logica la priorità, come Renzi ha annunciato nelle sue prime dichiarazioni, sarà data a una nuova legge elettorale, impresa per nulla semplice, almeno in prima battuta, dati i due tavoli differenti (governo e riforme) su cui giocare con giocatori diversi (Alfano e Berlusconi). Vedremo se i fatti ci daranno ragione.
E l’economia?
Data questa premessa risulta chiaro che in campo economico, nel breve periodo, le ragioni politiche porteranno il governo a privilegiare provvedimenti altamente mediatici – si pensi al taglio degli stipendi dei manager pubblici, o al taglio dei costi della politica – cavalli di battaglia di Renzi sin dalla campagna per le primarie che avranno l’obiettivo di mostrare, da una parte, grande discontinuità col governo Letta, dall’altra di dare l’impressione di una voglia di cambiamento forte.
Queste sono misure attese dall’opinione pubblica da tempo, sebbene i ritorni economici possano essere stimati come secondari. Per questo, tali provvedimenti dovranno necessariamente essere affiancati da misure che abbiano un impatto più corposo su una delle preoccupazioni più pressanti della società italiana, il lavoro. Il Jobs Act, lanciato in pompa magna e forse subito nascosto una volta che la decisione di cambiare strategia complessiva si è palesata, sarà senza ombra di dubbio il grande cavallo di battaglia del governo Renzi. I punti presenti nella proposta originaria, che spaziano dal taglio dei costi dell’energia per le imprese, a una nuova legislazione del diritto del lavoro, sino a una forte discontinuità in tema di tassazione del lavoro, sono certamente ambiziosi ma sottostanno a un insieme di vincoli finanziari e di difficoltà di implementazione abbastanza cogenti. Cerchiamo di analizzarli, in maniera sintetica.
Costo dell’energia
Per quanto riguarda il costo dell’energia, pare chiaro che nel breve periodo, in cui non si può agire sul lato offerta in modo sostanzioso, l’ambizione di tagliare la bolletta energetica passa attraverso un ulteriore utilizzo degli incentivi, distorsivi e in gran parte controproducenti, come l’Istituto Bruno Leoni ha più volte ricordato, oppure tramite un’opera di liberalizzazione dell’offerta che però rischia di spostare i benefici nel medio periodo.
Riforma del mercato del lavoro
Per quanto riguarda la legislazione sul lavoro e le regole contrattuali della protezione dell’impiego, molto dipenderà da chi sarà il ministro responsabile dell’annunciata riforma. Il toto-ministri, esercizio mediatico spesso fantasioso, sembra citare, fra gli altri, l’economista Tito Boeri e il senatore Pietro Ichino. Ci asteniamo dal commentare le voci che danno anche Epifani come possibile candidato perché vogliamo sperare che il disegno riformatore non sia così confuso da affiancare personalità con record e idee così eterogenee sul tema del mercato del lavoro.
Se il ministro dovesse essere una delle due personalità citate, pare chiaro che lo schema sarà quello di una forte semplificazione normativa, assolutamente auspicabile, accompagnato dalla suggestione del cosiddetto “Contratto Unico di Lavoro” a tutele progressive nel tempo, proposto, seppur in forme diverse, dai due studiosi. Chi scrive ha più volte partecipato a seminari di presentazione dell’idea, che trova grande supporto anche in ambienti accademici europei.
L’impressione è quella di una proposta sicuramente funzionale (almeno da un punto di vista teorico) in quanto smusserebbe gli alti costi marginali, dovuti alla ben nota dualità del mercato del lavoro, di conversione dei contratti temporanei in contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, è da tener presente che sinora nessun paese europeo si è mosso verso questa soluzione. La ragione sembra risiedere nella difficile implementazione, specialmente nella fase transitoria, di questa innovazione.
Immaginiamo che il nuovo contratto unico abbia come target tutti i nuovi contratti stipulati a partire da una certa data. In maniera contro-intuitiva, potrebbe accadere che questo disincentivi le transizioni da contratti a tempo indeterminato esistenti verso la nuova forma contrattuale, in quanto si perderebbe la protezione accordata con il vecchio regime per una contropartita incerta di un aumento salariale che compensi l’assunzione di questo rischio. Siamo proprio sicuri che funzioni? È per questo che spesso e volentieri la nuova forma contrattuale è proposta in una forma meno drastica, ovvero solo per i nuovi entranti nel mercato del lavoro, aggiungendo perciò come ulteriore vincolo quello dell’età del contraente.
I benefici di una maggiore dinamicità del mercato del lavoro sarebbero però spalmati in questo caso in un lunghissimo periodo transitorio. La difficoltà nell’implementare questa riforma risiede quindi nello stesso fenomeno che si intende curare, ovvero nella segmentazione pronunciata del mercato del lavoro. Sarebbe quindi auspicabile una attenta analisi fra costi e benefici potenziali, soprattutto se si richiede che i vantaggi di questa azione riformatrice siano visibili nel medio periodo, cosa – come già sottolineato – assolutamente necessaria per Renzi da un punto di vista politico.
Cuneo fiscale
Per finire, un breve spunto sulla questione annosa del taglio del costo del lavoro. Il cuneo fiscale nel nostro paese è certamente elevato, ma non dissimile da paesi come Germania e Francia che tuttavia, nel decennio scorso, hanno sperimentato una dinamica della produttività più elevata della nostra. È certamente necessario un taglio, ma è non sufficiente a garantire che questo abbia un impatto sulla produttività totale dei fattori, che dipende da un insieme di variabili e non solo dalla tassazione punitiva del lavoro. Per di più, è importante ricordare i vincoli esterni di bilancio imposti dalla Unione Europea. Un taglio del costo del lavoro non potrebbe essere finanziato in deficit, pare lapalissiano, a meno di non sperare che la tattica “Merkel #staiserena” possa avere realisticamente qualche chance di successo.
Chi scrive è dell’opinione che la Merkel possa dormire sonni tranquilli e che una eventuale rinegoziazione dei parametri di bilancio pubblico in Ue non possa che portare a scarsi risultati, forse nell’area degli investimenti pubblici. È fuori discussione la possibilità di sforare sulla spesa primaria.
In ultimo, sia consentito un breve avvertimento. Il Ministro dell’Economia uscente, Fabrizio Saccomanni, si è lanciato in previsioni di crescita del Pil per il 2014 a dir poco ottimistiche: le sue previsioni parlano di un Pil nominale che crescerà del 3% nel 2014 (1% reale, 2% di inflazione). Ci sia consentita una sana dose di scetticismo, visto che Ocse e Fmi prevedono rispettivamente una crescita nominale dell’1,6% e del 1,8%.
Draghi stesso ha recentemente avvertito che le stime della Bce più recenti prevedono una dinamica inflattiva nel medio breve periodo ben al di sotto del target del 2%. Ora, come spesso accaduto in passato, la dinamica del deflatore dei consumi pubblici potrebbe essere del tutto scollegata dalla dinamica del deflatore del Pil, non vorremmo che il Ministro dell’Economia entrante si ritrovi con stime sui saldi di bilancio abbastanza fuori linea con quanto programmato.
Il consiglio è quello di sottoporre a revisione i grandi aggregati di spesa e di entrate programmati, per non incappare in brutte sorprese che si ripercuoterebbero inevitabilmente sui margini di manovra di bilancio già risicati necessari per il taglio delle tasse auspicato. Davvero un inizio da far tremare i polsi per il governo nascituro dell’ambizioso Matteo Renzi.