Gorky ParkMosca ’80 – Sochi 2014: dall’Urss all’era putiniana

34 anni di storia

Mosca 1980, Sochi 2014: in mezzo 34 anni in cui non solo la storia delle Olimpiadi è cambiata, ma quella del mondo intero e soprattutto della Russia. I Giochi estivi del 1980 furono i primi nell’Europa dell’Est: allora c’era l’Unione Sovietica e le gare si svolsero non solo sulla Moscova, ma anche altrove, da San Pietroburgo (che si chiamava ancora Leningrado) a Tallinn, Minsk e Kiev, oggi capitali di Stati indipendenti. Quelle di Mosca furono le Olimpiadi del boicottaggio occidentale, ritorsione sportivo-politica all’invasione sovietica dell’Afganistan, cominciata nel dicembre del 1979. Con la macchina del business che non aveva ancora sdoppiato il calendario (Giochi estivi e invernali si tenevano nello stesso anno), l’embargo sportivo si abbatté solo su quelle estive Made in Urss.

Nel febbraio del 1980 i XIII Giochi invernali si tennero a Lake Placid, negli Stati Uniti. Al gran completo, benché il presidente Jimmy Carter avesse già annunciato il boicottaggio per l’estate moscovita. I sovietici arrivarono all’appuntamento e trionfarono nel medagliere come loro costume a quei tempi, ma dovettero subire una memorabile sconfitta proprio in una delle discipline in cui erano favoriti: la finale dell’hockey su ghiaccio maschile fu vinta dagli americani sui russi con un 4 a 3 indimenticabile che passò alla storia dello sport a stelle e strisce come “The Miracle on Ice”. In Russia, tra il luglio e l’agosto 1980, gli atleti dell’Unione Sovietica conquistarono poi in casa un record di medaglie, contando anche sull’assenza di americani e tedeschi dell’Ovest. Tutta farina nel sacco della propaganda sovietica, nel pieno della Guerra fredda.

Mosca comandava Leonid Breznev, che avrebbe resistito ancora due anni, prima di finire nella necropoli dei dirigenti comunisti sotto le mura del Cremlino, all’ombra del mausoleo di Lenin. Che è lì ancora adesso. L’Unione Sovietica sembrava ancora nel pieno delle sue forze, in realtà la stagnazione aveva già avviato il declino. In pochi anni, dopo le brevi parentesi di Yuri Andropov e Konstantin Cernenko, Mikhail Gorbaciov avrebbe traghettato l’Impero del Male così dipinto da Ronald Reagan alla dissoluzione.

Le Olimpiadi estive del 1980 furono il primo e unico episodio in cui l’Urss aprì in grande stile le porte al Mondo, o almeno quello che accettò l’invito, prima di scomparire una decina di anni più tardi. Quando la bandiera rossa con falce e martello fu ammainata dalla Piazza Rossa nel dicembre del 1991, sostituita dall’attuale tricolore, Mikhail Gorbaciov era stato già consegnato alla storia dalla decisione, presa nella foresta di Belavezha da Boris Eltsin e dai presidenti di Ucraina (Leonid Kravchuk) e Bielorussia (Stanilsav Shushkevich), di seppellire definitivamente l’Urss. Innaffiata dalla vodka, non finì solo l’Unione sovietica in senso politico, ma anche quella sportiva.

Alle Olimpiadi invernali di Albertville, in Francia, nel febbraio 1992, gli atleti ex sovietici parteciparono sotto la bandiera dei Cinque cerchi (lo stesso sarebbe accaduto in quelle estive a Barcellona qualche mese più tardi): le quindici repubbliche indipendenti nate sulle ceneri dell’Urss ci misero un paio d’anni prima di riorganizzarsi sportivamente. Poi, dal 1994, quando Giochi invernali ed estivi iniziarono a essere celebrati alternativamente con cadenza biennale, si arrivò a quella che è ancora la situazione di oggi. Almeno dal punto di vista sportivo. Da quello politico, la Russia comunista degli Ottanta e quella eltsiniana del decennio successivo (1991-2000), non hanno nulla a che spartire con la Russia di Vladimir Putin, che con le Olimpiadi di Sochi non è certo arrivata a un traguardo, ma è ancora nel pieno di una transizione.

Per il nuovo Zar, che ha fortemente voluto portare i Cinque cerchi ancora una volta sotto la stella del Cremlino, è una questione di prestigio. La Russia putiniana, rinata tra luci e ombre sia al suo interno che sulla scacchiera internazionale, ha cambiato faccia. Dal default del 1998 Mosca ha percorso molta strada e per Putin, a quasi quindici anni dal suo arrivo sulla ribalta russa e internazionale (nominato primo ministro nell’agosto del 1999), si tratta della chiusura definitiva di un ciclo.

Dopo i primi due mandati alla presidenza (2000-2008) e l’intermezzo di Dmitri Medvedev (2008-2012), il ritorno al Cremlino per la terza volta nel marzo di due anni fa ha segnato una cesura. Dopo avere evitato la possibile disgregazione del Paese sconquassato dall’anarchico decennio di Eltsin, Putin ha portato sì prima stabilità, ma ora manca lo slancio delle riforme. Sochi è in questo senso il simbolo perfetto della Russia di Vladimir Vladimirovich: un gigantesco progetto – realizzato per così dire “alla russa”, con tutti gli effetti collaterali possibili e immaginabili – che può finire nella stagnazione oppure essere l’occasione per la ripresa.

Le decine di miliardi di dollari spese tra le rive del Mar nero e le montagne di Krasnaya Polyana saranno insomma servite e qualcosa, se dopo il 23 febbraio con la fiamma olimpica già verso la sudcoreana Pyeongchang, Sochi diventerà veramente quel polo di attrazione turistico invernale ed estivo per far rivivere i fasti della riviera russa che era ferma ai tempi di Breznev e di Mosca 1980Non rimanendo una vetrina solo per due settimane, ma diventando un trampolino verso il 2018, anno in cui la Federazione russa ospiterà i Mondiali di calcio.

Se invece il fuoco sarà di paglia, Vladimir Putin dovrà iniziare a preoccuparsi. Fra quattro anni la Russia, che cresce a passo di lumaca, potrebbe trovarsi di fronte a nuove difficoltà, bloccata da un sistema rigido e più simile a una potenza con i piedi nell’argilla che a un vero player internazionale accanto a Stati Uniti e Cina. Il destino dopo la tappa delle Olimpiadi, per Sochi e per tutto il Paese, è insomma nelle mani del Presidente e dell’élite al potere, che tra i difficili equilibri nei corridoi del Cremlino stanno ancora tirando il freno.

Infografica di Ispi

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