Sanremo, il politicamente corretto fuori dalla storia

Il “fazismo” buonista del Festival 2014

Si sprecano fiumi di inchiostro, per criticare il festival di Sanremo, e di solito per dire ogni anno una banalità ricorrente, e cioè che l’ultimo Sanremo è sempre peggiore del precedente. E invece, quest’anno, bisogna provare a spiegare una cosa più complessa: e cioè che il festival è più bello, ma anche che è meno efficace. Il festival è stato migliore, dal punto di vista qualitativo (senza dubbio). Ma peggiore, da punto di vista dell’identità, rispetto ai grandi classici, ai Sanremo di Gianni Morandi, per dire, o a quello (anzi, quelli!) di Pippo Baudo. 

È un ottimo festival in cui la musica è migliore, magari, però sta da un lato e non riesce a prendere la scena, dove le star non sono protagoniste ma contorno: un “Che tempo che fa” con la colonna sonora, e in formato extra-large, che, nella sua sublimazione politicamente corretta, difetta di sangue, di passione, di sporcature. 

Per carità, apparentemente non mancava nulla: non uno ma addirittura due aspiranti suicidi, e ovviamente i disoccupati napoletani, persino l’irruzione di Beppe Grillo, grandi musicisti come Cristiano De André, gruppi di nicchia trascinati alla ribalta. Luciana Littizzetto è sempre la migliore («Letizia Casta è veramente una figa, ha degli amici gay che, dopo averla vista, sono diventati etero»), anche quando è costretta ad esaltare la sua vena di trivialità fisicistica, basata quasi esclusivamente sulle battute che alludono al sesso, ai corpi, all’estetica alla cosmogonia parallela del Walter della Iolanda. Più Fazio diventa buonista, infatti, più la Littizzetto diventa cattiva: più questa dissonanza si esalta, più il il sapore che resta – però – è stridente, poco catartico. 

Io stavo davanti al televisore speranzoso e speravo disperatamente che accadesse qualcosa, io se fossi stato Fazio sarei andato a cercar mele, magari a fare un frontale con Grillo, andando a parlargli in platea di quanto prendeva lui, di ingaggio, prima di diventare un Savonarola pauperista. Ma ci sono i problemi, il Cda, la par Condicio, e capisco.

Mancano tre fattori vitali decisivi, a questo festival: il kitsch, l’istituzionalità sontuosa e l’imprevisto. Mancava la fotografia di questo paese arrabbiato e confuso. Mancava il contemporaneo. Il punto è che il fazismo è grande calligrafia, è una impaginazione perfetta della realtà. La cornice più bella che si possa desiderare: ma il quadro che contiene, alla fine, rappresenta sempre una realtà che appartiene ad un’altra stagione, una stagione passata.

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