Va riconosciuta onestà e lungimiranza a Romano Prodi che sul Corriere della Sera ha detto
«…C’è un nuovo mondo. Occorrono persone nuove che lo interpretino. La nuova politica, per linguaggio, contenuto, velocità, supera la mia capacità di comprensione. Non sono un uomo 2.0».
Manca all’Italia questa consapevolezza di sistema. Siamo infatti dentro una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell’uomo. L’era digitale è un nuovo umanesimo che sta travolgendo tutti gli schemi cognitivi fin qui conosciuti. A buona parte della nostra classe dirigente politica, industriale e burocratica tutto ciò non è chiaro. La loro inadeguatezza è soprattutto questa. Essere analogici.
È una situazione che non permetterà all’Italia di essere pronta a cavalcare la crescita che verrà. Servono riforme profonde, strutturali. Una politica industriale di breve, medio e lungo periodo fondata sulla digitalizzazione dell’economia. Misure shock che ci mettano nelle condizioni di poter sfruttare l’onda della crescita. Allo stato, se la crescita partisse, ce ne gioveremmo solo marginalmente. Niente di risolutivo. Al primo scossone saremmo risospinti indietro. Insomma, dobbiamo toglierci il vestito vecchio, pesante e rattoppato che ci siamo cuciti addosso. Governare bene la cosa pubblica oggi significa saper stare al passo della rivoluzione digitale.
Il cui effetto principale è l’impatto sulla velocità del progresso tecnologico, sul tasso d’introduzione delle innovazioni nella vita quotidiana. Le suggestioni contenute nelle teorie di Ray Kurzweil (oggi non a caso director of engineering di Google) sono da considerare con attenzione: il progresso tecnologico è passato da uno sviluppo lineare ad uno esponenziale grazie all’information technology, alle nanotecnologie, alle biotecnologie, alla robotica, alla Rete. Ciò sposta in continuazione la soglia del concetto di impossibile. Anche andare sulla Luna era sembrato impossibile sino a pochi anni prima del 1969; ed è come se, oggi, quegli anni, fossero diventati mesi, forse giorni.
Rimane inevitabilmente indietro il sistema cognitivo delle passate generazioni, nate e cresciute lungo tutta la loro vita formativa e lavorativa in un’epoca dove non esistevano internet, gli smartphone, i tablet, il touch, le app, i social. Generazioni che mantengono in larga misura la guida del nostro Paese. Rimane certo la capacità di aggiornarsi ma è diverso dall’esserci nati “dentro”. Dentro l’era digitale dove la potenza della comunicazione, del calcolo, della capacita di avere relazioni e informazioni e di entrare in contatto con chiunque, in qualunque parte del mondo in tempo reale è un dato cognitivo in se, non appreso. Così la capacita cognitiva è moltiplicata all’infinito, è diversa e inarrivabile per chi invece ha dovuto apprenderla. I nativi digitali la cavalcano gli altri sono costretti a rincorrere. Con grande fatica. Per questo ha ragione Prodi: va accelerato il ricambio generazionale delle classi dirigenti. Ma non solo quella politica. Per cavalcare al meglio quella corsa esponenziale del progresso e non frenarla ad uno stadio cognitivo di linearità. Perché passo dopo passo analogico finiremmo dritti nel burrone.