Crisi sirianaSiria, Paese in ostaggio di interessi più grandi

Intrigo mediorientale

Il primo “round” della conferenza di pace sulla Siria, a Ginevra, si era concluso con un piccolo passo in avanti: tre giorni (ora aumentati a sei) di cessate il fuoco a Homs, per consentire l’evacuazione dei civili rimasti intrappolati nella città da due anni assediata dai lealisti. Ma una rondine non fa primavera e la soluzione del conflitto non sembra a portata di mano dei leader siriani e stranieri che dal 10 febbraio hanno iniziato il secondo giro di incontri nella città elvetica.

Durante la pausa dei negoziati un gruppo di fanatici islamici ha fatto strage di civili alawiti (la minoranza etnica del presidente Assad) nella provincia di Hama; i lealisti hanno scaricato “barili bomba” sui quartieri di Aleppo in mano agli insorti uccidendo più di venti persone, tra cui due bambini; i ribelli del Free Syrian Army (Fsa) e quelli dell’Isil (jihadisti di recente disconosciuti da Al Qaeda) si uccidono tra di loro; anche la tregua di Homs è stata violata, con lealisti e ribelli che si accusano reciprocamente di aver sparato colpi di mortaio e di aver impiegato cecchini contro la popolazione inerme. Ma non è tanto questo bagno di sangue senza tregua ad impedire un accordo risolutivo, quanto la natura di “pedina” della Siria in un gioco molto più grande.

Nessuna delle fazioni in lotta nel Paese è a oggi in grado di autodeterminarsi: Assad non può prescindere dall’appoggio determinante di Teheran e di Mosca, e non assumerà decisioni che risultino sgradite ai suoi protettori. Allo stesso modo i ribelli non hanno alcuna speranza di sconfiggere sul campo le forze del regime senza un coinvolgimento molto maggiore degli Stati Uniti – al momento nemmeno all’orizzonte – né potrebbero mantenere il controllo dei territori già sottratti a Damasco senza un costante aiuto dall’esterno. Ad oggi se anche avessero la volontà, i ribelli non avrebbero le forze per trattare col regime di Assad un accordo inviso ai loro sostenitori (il che complica ulteriormente il quadro, considerando che dietro le varie fazioni dei ribelli si celano diversi Stati e organizzazioni straniere con obiettivi non sempre conciliabili).

Se le potenze regionali e quelle mondiali non trovano un accordo tra di loro, le fazioni in Siria non saranno in grado di stipulare la pace. Il problema – secondo diversi analisti – è che, nella partita che stanno giocando queste potenze, la Siria è una pedina sacrificabile per ottenere risultati di maggiore portata su altri tavoli«Una ipotetica soluzione della guerra civile siriana passa necessariamente da un’intesa sulla questione più importante attualmente sullo scacchiere mediorientale: il ruolo strategico dell’Iran», spiega Claudio Neri  direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici Niccolò Machiavelli. «Fino a che l’Iran non vedrà riconosciuto il proprio ruolo di potenza regionale, nell’ambito di un accordo con gli Stati Uniti, si rifiuterà di rinunciare al suo alleato siriano. Se questo accordo invece ci fosse, allora Teheran potrebbe acconsentire ad una transizione che passi per la destituzione di Assad a Damasco».

 

La trattativa sul nucleare iraniano è, per molti aspetti, la classica “lepre” in un negoziato: un argomento che viene mandato avanti per saggiare le reali intenzioni della controparte ed eventualmente per aprire ad altre questioni meno evidenti ma più importanti. Nonostante alcuni primi risultati proprio sul dossier atomico, il quadro attuale non è tale da consentire previsioni ottimistiche. Il potere teocratico in Iran ha scritta nel proprio codice genetico e nella propria storia l’ostilità all’America. Un’eventuale trattativa di respiro troppo ampio rischierebbe di logorare e poi spaccare la tenuta interna del regime degli Ayatollah. «La soluzione potrebbe essere un accordo segreto – prosegue Neri – ma in tal caso sarebbero forse gli americani a non essere interessati. Obama è a due anni dalla fine del mandato e pare più interessato ad ottenere un qualche risultato spendibile pubblicamente che non a mutare radicalmente la strategia in Medio Oriente. Con il rischio oltretutto che un’eventuale vittoria dei Repubblicani porti ad un’altra inversione di rotta».

Agli ostacoli legati alle contingenze politiche del breve periodo si aggiungono le dinamiche “macro” che interessano gli assetti di potere a livello mondiale. «La Russia e la Cina faranno di tutto per evitare che l’Iran torni a essere un partner strategico per gli Stati Uniti, come era ai tempi dello Scià. È loro preciso interesse che Washington non riesca a disimpegnarsi dall’area per concentrarsi sul fronte del Pacifico, ma che anzi rimanga impantanato in Medio oriente il più possibile. Teheran però non è Damasco e potrebbe teoricamente non piegarsi alle pressioni di Mosca. Inoltre Pechino non può permettere che i Paesi produttori di petrolio – risorsa di cui ha un crescente bisogno – sprofondino nel caos, quindi a fronte di un ipotetico accordo Usa-Irannon penso che utilizzerebbe la propria influenza per farlo fallire, col rischio di un’altra crisi nell’areaMa in un quadro di ostilità reciproca tra Iran e Usa, come quello attuale, il “consiglio” di cinesi e russi ha un peso determinante. I più svantaggiati da un accordo strategico tra americani e iraniani in ogni caso sarebbero i sauditi e da loro ci si possono aspettare le resistenze più forti. Finora hanno goduto dei favori dell’alleanza con gli Usa in regime di quasi monopolio nell’area. Se Washington dovesse stipulare un’intesa con i loro più acerrimi nemici, gli iraniani, per Riad sarebbe un duro colpo».

In questo vicolo cieco rischia di essere finito il futuro della Siria. Il Paese di Assad non può uscire dalla guerra civile senza un accordo tra potenze straniere, ma le potenze straniere per ora sono più interessate a usare la Siria come merce di scambio sul tavolo di altre trattative. Trattative con limiti contingenti e strutturali tali da rendere improbabile un loro esito positivo. «Alla Siria – conclude Neri – potrebbe toccare la sorte che fu del Libano a fine secolo scorso: il Paese finì ostaggio di dinamiche troppo grandi su cui non fu in grado di intervenire e la guerra civile che ne è derivata sembra poter durare all’infinito». Allora il prezzo di quell’impotenza furono 15 anni di massacri e 150 mila morti. In Siria sono già 130 mila a soli tre anni dallo scoppio delle ostilità.

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