Partiamo dalla fine: lunedì il presidente spagnolo Mariano Rajoy è arrivato in Parlamento e ha parlato alla nazione. Un discorso teatrale, con incipit da brivido («La Spagna sull’orlo del baratro», citava il titolo di un giornale nei giorni che furono); una lotta perigliosa contro i venti sfavorevoli dei mercati finanziari e i marosi della crisi economica fino a «doppiare Capo Horn» con la stessa decisione di un novello Magellano; infine le quiete acque di «una nuova epoca» che si avvicina, questa sì felice.
In mezzo, due annunci ad effetto: tarifa plana di 100 euro al mese sui contributi per gli imprenditori che assumono a tempo indeterminato per i primi 24 mesi e niente Irpef per chi guadagna meno di 12 mila euro l’anno a partire dal 2015. A priori suona tutto meraviglioso, tanto più che una ripresa c’è: il Paese è ufficialmente uscito dalla recessione, la Commissione europea e il Banco di Spagna prevedono una crescita del Pil dell’1 per cento per il 2014. Nel 2015 dell’1,7. Merito soprattutto dell’aumento esponenziale del turismo e del boom dell’export che ha riportato in attivo la bilancia commerciale: secondo i dati pubblicati il 22 gennaio dal ministero dell’Economia, la Spagna ha fatturato merce per 215.927 milioni nei primi 11 mesi del 2013. Cioè un 5,4 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2012.
Ma, si sa, non è tutto oro quel che luccica, nemmeno quello che il premier promette a un Paese nel quale il tasso di disoccupazione è al 26 per cento e tocca il 55 tra i giovani. Per farla breve la tarifa plana – o meglio flat tax – è un bluff: come sottolineano già più analisti Rajoy ha dimenticato di aggiungere che questa misura riguarderà solo le cosiddette contingencias comunes, cioè la parte di contributi che coprono le pensioni e danno diritto alla malattia.
Le altre voci non saranno toccate, quindi le aziende non pagheranno solo 100 euro, ma più o meno il doppio, se si prende l’esempio citato di uno stipendio di 20 mila euro lordi. Senza contare tutti i dubbi che questi contratti indefinidos (in Spagna non c’è l’articolo 18) lasciano spalancati, una volta conclusi i 36 mesi. Per quanto riguarda poi la possibile cancellazione dell’Irpef su chi guadagna meno di 12 mila euro, il governo lascerà nelle tasche dei cosiddetti mileuristas appena 4 euro al mese, come calcola la stampa iberica. Insomma molti slogan e poca sostanza.
Il punto è che, a due anni dall’introduzione della riforma sul lavoro, che perfino l’Italia guardava con ammirazione, i numeri non sono positivi. A fare un bilancio definito «poco incoraggiante» è stata la Fondazione delle casse di risparmio: se i disoccupati iscritti agli uffici di collocamento nel 2012 erano 4.599.829, adesso sono 4.814.435, con un aumento di 241.606, cioè il 4,6 per cento in più nel gennaio scorso. Il numero degli iscritti alla Previdenza sociale, poi, è calato di oltre 700 mila persone. E gli specializzandi volano all’estero.
Insomma a Madrid l’idea dei licenziamenti facili, flessibilità e meno garanzie in cambio di più occupazione non sta funzionando: da una parte il credito non riparte, dall’altra crollano i salari e di conseguenza i consumi, infine aumenta la precarizzazione e i contratti a ore. Secondo i dati dell’Encuesta de población activa (Epa), lo studio statistico sul mercato del lavoro elaborato dall’Istituto nazionale spagnolo (Ine), dei 14,7 milioni di contratti che sono stati stipulati nel 2013, quasi 5,3 milioni, cioè il 36 per cento, erano a ore. Manodopera precaria a 400 euro al mese.
La nota positiva è che la competitività dei costi lavorativi in Spagna è migliorata dall’inizio della crisi, il che colloca il Paese in una posizione vantaggiosa per attrarre produzione industriale e investimenti. Ne sanno qualcosa, ad esempio, le multinazionali delle automobili – Volkswagen, Peugeot, Renault, Ford, General Motors – che, nel 2013, hanno investito 1,5 miliardi di euro in produzione di nuovi modelli, secondo i dati dell’Associazione nazionale di fabbricanti di auto (Anfac). La chiave sta nella riduzione dei costi lavorativi: dell’1,2 per cento nella prima metà dell’anno scorso, del 3,6 nell’ultimo semestre. Ma a più competitività corrispondono più licenziamenti facili, più Ere (una sorta di cassa integrazione nostrana) e soprattutto stipendi più bassi.
Insomma «oggi la Spagna potrebbe giocare in Europa lo stesso ruolo che ricoprì la Cina nel mondo alla fine degli anni ’90», scrive l’Istituto francese Natixis, in una ricerca economica pubblicata lo scorso ottobre. Così, spiega l’istituto «è ragionevole pensare che la Spagna diventi il centro nevralgico di fabbricazione dei prodotti industriali di fascia medio-bassa in Europa». Tanto più che secondo i sindacati, come la Ugt (Unione generale dei lavoratori) le imprese approfittano del tasso di disoccupazione per imporre pesanti condizioni: quest’estate i lavoratori di Nissan e Renault, ad esempio, hanno dovuto accettare 33 misure di competitività, più giorni di lavoro – compreso il sabato – e un salario ridotto per difendere il loro posto.
Qualcosa si muove dunque e le aziende cominciano a guardare a Madrid con interesse, ma l’operazione è tutt’altro che indolore: si riduce il potere d’acquisto delle famiglie, le condizioni lavorative e la qualità della vita. E in molti accanto alla parola competitività, parlano di azzardate politiche sul mercato del lavoro che rischiano di vendere gli spagnoli a ribasso, come i nuovi cinesi d’Europa.
«Parlare di “cinizzazione” è una provocazione, ma è vero che i costi lavorativi sono crollati durante la crisi, specialmente con l’entrata in vigore della riforma del lavoro. E il potere di contrattazione si è notevolmente ridotto», spiega Juan Ramón Rallo, professore all’università Rey Juan Carlos e all’Isead business school di Madrid. «Da una parte è positivo che sia così, visto che durante la bolla immobiliare i costi erano aumentati in maniera preoccupante. Ciò nonostante, ancora oggi continuano a diminuire».
Rimane da capire allora se la Spagna non sia rimasta indietro, a lottare contro le avverse condizioni delle acque di Capo Horn, mentre il suo premier veleggia già nell’Oceano Pacifico, magari in cerca di investitori sudamericani, o meglio orientali.