Un eventuale cambio non fa paura. I mercati finanziari non temono la staffetta tra Enrico Letta e Matteo Renzi alla guida del governo. Anche nel caso avvenisse, il messaggio è sottinteso: o si procede con le riforme strutturali entro la fine della prossima estate oppure potrebbe tornare la pressione sull’Italia, nonostante la presenza della Banca centrale europea (Bce). Il tempo sta per scadere. E mentre diversi Paesi, come Irlanda e Portogallo, hanno migliorato in modo sensibile la loro situazione sui mercati obbligazionari, l’Italia rischia di fare il percorso inverso proprio a causa all’instabilità politica.
«Cosa accade in Italia? Siete di nuovo a discutere su un nuovo governo?». Esordisce così un vice president di Nomura in un sms. E alla risposta che stanno aumentando le possibilità che Matteo Renzi diventi il nuovo presidente del Consiglio senza nemmeno passare dalle urne, dagli sms si passa alla telefonata. Una chiamata lunga, più incuriosita che tesa, nella quale vengono ripetute tre parole su tutte: riforme, crescita, stabilità. Servono le riforme strutturali, occorrono misure per il ripristino della domanda interna, urge una stabilità di fondo per rendere credibile il Paese. Da quando è caduto l’ultimo governo legittimamente eletto, quello di Silvio Berlusconi, l’Italia ha cercato di ritrovare la credibilità. Doveva farlo a colpi di riforme, doveva farlo a suon di mutamenti strutturali nella sua pachidermica struttura. E salvo alcuni sussulti, come la riforma delle pensioni e altre piccole iniziative come il piano Destinazione Italia, sia l’esperienza di Mario Monti sia quella di Enrico Letta sono state al di sotto delle aspettative. Cosa succederebbe in caso di rimpasto? «La nostra posizione rimane positiva sui Btp, ma molto dipenderà dai prossimi mesi», spiega la banca nipponica in una nota.
Poi, dopo Nomura, arriva la chiamata di un altro banker, questa volta di Deutsche Bank. «L’Italia è sempre la stessa, non è così?», dice con una risata che sa di agrodolce. La condizione fiscale dell’Italia è migliorata nel corso degli ultimi due anni e il consolidamento delle finanze pubbliche, debito a parte, è stata netta. Ma quello che manca è quella «spinta in avanti» che invece hanno fatto altri Paesi sotto stress tra 2010 e 2012. «Perfino la Grecia ha dato dimostrazione di impegnarsi più dell’Italia», continua. L’amaro lascia il posto alle risate quando si parla di riforme. «La legge elettorale ancora latita e questo ritardo non fa altro che ridurre le prospettive sull’Italia», va avanti. Stabilità significa anche avere una legge capace di rendere governabile un Paese con un debito da oltre 2.000 miliardi di euro e un rollover di circa 400 miliardi l’anno. Stabilità significa evitare di creare una crisi di governo ogni due mesi. Sono lontani i tempi in cui i rendimenti dei titoli di Stato italiani erano ai massimi dall’introduzione dell’euro. E sono lontani anche i giorni in cui il Tesoro sondava i vari piani di contingenza sia internamente sia con Commissione europea e Fondo monetario internazionale. Sono lontani, ma sono anche terribilmente vicini, complice l’inazione dell’attuale esecutivo.
«Considerato tutto il caos di questi giorni, per fortuna che c’è la Bce, alla fine». Così commenta a Linkiesta una fonte governativa. È la verità. E lo sanno anche le banche d’investimento, che si sono mostrate molto caute sull’essere negative intorno a Roma. Già in una nota di stamattina, la londinese Barclays aveva escluso un ritorno della grande paura intorno all’Italia. Anche in caso di rimpasto – hard o soft poco importava – non ci sarebbero state grandi sorprese sul mercato obbligazionario. Le stesse indicazioni sono arrivate anche da Goldman Sachs, J.P. Morgan, Société Générale e HSBC. La cristallizzazione dell’eurozona, dovuta soprattutto alle Outright monetary transaction (Omt) della Bce, è servita a tranquillizzare gli investitori fino a oggi. E sono mesi che si attende una scossa concreta all’economia, alla giustizia, al fisco. Per questo l’Italia potrebbe presto tornare al centro dei pensieri degli investitori. La deadline, informale, è settembre. Se non ci saranno riforme, se non ci sarà il cambiamento della legge elettorale, se non saranno fornite indicazioni prospettiche sulla strada intrapresa dal governo, qualunque esso sia, la pressione intorno all’Italia non potrà che ritornare. Pressione che potrebbe essere ancora più elevata nel caso l’Asset quality review (Aqr) della Bce evidenzi una rilevante carenza di capitale per le banche italiane.
Sullo sfondo della guerra fra Letta e Renzi, c’è però uno scenario peggiore. Quello del taglio del rating sovrano dell’Italia. Il prossimo venerdì infatti l’agenzia di rating Moody’s si esprimerà ufficialmente sul giudizio del Paese, attualmente a livello Baa2 con outlook negativo. Considerata l’attuale incertezza e la persistente difficoltà a implementare le riforme utili all’Italia per risalire nel china e trovare una stabilità di lungo periodo, Moody’s potrebbe anche optare per un taglio di una nota al rating italiano, portandolo a Baa3. A un passo quindi dal grado “Junk”, spazzatura. E secondo la denominazione ufficiale, l’Italia sarebbe considerata come uno di quei Paesi con «obbligazioni caratterizzate da elementi speculativi; nel lungo periodo non possono dirsi garantite bene». Una nazione nella quale «la garanzia di interessi e capitale è limitata e può venir meno nel caso di future condizioni economiche sfavorevoli». Secondo diversi operatori finanziari si tratta di una decisione possibile e con effetti potenzialmente devastanti. «Ci sarebbe un avvitamento pericoloso, capace di portare in fretta a un altra sforbiciata», spiega una fonte bancaria. Se così fosse, sarebbe assai poco rilevante se a Palazzo Chigi ci fosse Letta o Renzi. La tempesta perfetta inizierebbe comunque.