Ci sono diversi aspetti che rendono complesso e delicato parlare di un libro come Calciatori di sinistra, dello spagnolo Quique Peinado, edito da ISBN nel febbraio scorso. Il primo è il più evidente: questo libro ha un colore politico ben determinato, un colore — il rosso — che ne preclude chiaramente un altro — il nero. Proprio per questo, i lettori che mal sopportano le cromie del rosso e i temi del socialismo (lotta di classe, solidarietà tra gli uomini, uguaglianza e insofferenza per l’autorità e i poteri forti) malsopporteranno anche questo libro, vien da sé. C’è un’altra tipologia di lettori che malsopporteranno questo libro, i pisani. Il motivo è molto semplice: il ritratto apologetico di Cristiano Lucarelli e del Livorno, per motivi preclari di rivalità cittadina, renderanno una parte del libro indigesto al lettor pisano.
Il libro, che è la cosa più importante
Parlare di calcio è parlare dell’uomo, delle sue pulsioni, dei suoi istinti, dei suoi sogni e delle sue debolezze. Perché il calcio è lo sport popolare per eccellenza, è lo sport di tutti, per tutti. Se anche fosse cosa da dimostrare, basterebbe calcolare quanti sono gli sport che, per essere praticati decentemente, hanno bisogno di meno mezzi del calcio. La risposta è semplice: nessuno, o quasi.
Per giocare a tennis servono due racchette e una pallina (la rete si puà tranquillamente surrogare con un filo retto da due bastoni), per giocare a basket serve una palla e due canestri (basta anche uno, ma senza è un po’ difficile). Per giocare a baseball, oltre alla pallina serve la mazza, non si scappa. Per giocare a pallavolo serve qualcosa come una rete, se no sai che palle.
Il calcio è l’unico sport — insieme al rugby, non dimentichiamolo — per il quale basta una palla, anche di stracci, e qualche maglietta gettata per terra, a delimitare le porte. Poi il gioco è fatto: che tu sia tra le baracche di una favela brasiliana o nel giardino di una villa nobiliare del sussex inglese, la solfa non cambia. Il calcio è uno sport povero, lo sport povero, per eccellenza, è forse anche per questo che, nella sua storia ultracentenaria, ha visto spesso allinearsi i valori sportivi con i valori politici: calcio come speranza di riscatto sociale, come manifestazione di libertà, come modalità di socializzazione, come megafono per la lotta.
In questo libro di Quique Peinado c’è tutto questo, c’è il calcio raccontato nella sua dimensione più pura e sociale, un calcio slegato dagli interessi economici e legato agli interessi della comunità, della società, dell’individuo. Peinado, pur con qualche pecca — non tutte le storie sono scritte con lo stesso trasporto e la stessa epica, e alcune sono un po’ debolucce — mette in fila una serie di ritratti memorabili, collezionando episodi e personaggi che riescono a farci mettere in un angolo, almeno per un po’, l’immagine del calcio contemporaneo, schiavo di soldi e sponsor, privo o quasi di bandiere, mercificato e mortificato.
Non tutte le storie contenute in questo libro hanno lo stesso respiro, la stessa epica e la stessa forza. È un po’ come in una squadra di calcio: c’è la storia forte e potente come un centravanti di stazza, e quella che rapida, veloce come un’ala. C’è quella pazza come solo sanno essere i portieri, e quella solida, granitica e ben piantata per terra, come i vecchi stopper di una volta.
E poi c’è la storia incredibile, quella che sembra scritta da un bravo romanziere, quella dell’eroe che cambia le regole del gioco, quella del fuoriclasse: è la storia di Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, detto per semplicità Sócrates, che più che un giocatore è un mito.
Sócrates fu al centro di una delle storie più pazzesche del mondo del calcio di tutti i tempi, un esperimento sportivo, politico, sociale, una cosa che non si sarebbe ami più vista, am che fu grandiosa: la Democracia corithiana, una sorta di autogestione da parte dei giocatori stessi del club Corinthias di San Paolo, durata dal 1982 al 1984.
La Democracia corinthiana trasformò il club in una sorta di partito politico. Il suo funzionamento interno era semplice quanto rivoluzionario: un’assemblea dietro l’altra in cui votavano tutti, dalla stella della squadra fino all’ultimo magazziniere, e tutte le schede contavano esattamente allo stesso modo. Si decidevano orari di allenamento e dei pasti, si decideva se si dovevano comprare dei palloni, ma anche quali giocatori vendere e quali acquistare, e se gli allenatori dovessero rimanere o no, sebbene il lavoro del tecnico, quello sì, fosse completamente indipendente. Lo slogan era: «Libertà con responsabilità». E tutti la esercitavano, ognuno a modo suo.
Calciatori di sinistra vs calciatori di destra
Sono una persona curiosa, che ci devo fare. E quindi sono andato a leggermi, in giro per il web, le recensioni di altri colleghi a questo libro, un libro delicato e schierato. Non mi capita spesso, di solito preferisco avventurarmi nell’interpretazione vergine da altre che potrebbero in qualche modo condizionare le mie valutazioni, rendendo un po’ inutile il mio lavoro.
Ma questa volta era un po’ diverso. Questo libro, infatti, è un libro che si pone in modo netto, che dichiara subito il proprio pubblico tracciando sul terreno — in questo caso, metaforicamente, quello di un campo di calcio — una linea invalicabile: il colore politico, che in questo caso è il rosso, un rosso porpora, per niente annacquato.
In particolare c’era una cosa, sopra le altre, che mi interessava: capire quale fosse l’approccio a questo libro da parte di giornalisti che non hanno simpatie cromatiche affini alle mie (lo dichiaro subito, anche se il mio colore preferito è il blu, in questo caso, tra rosso e nero, non ho mai avuto alcun dubio nello stare dalla parte del rosso). Ero dannatamente curioso di sapere, per esempio, se il libro era stato recensito da quotidiani come Libero, Il Giornale o addirittura Il Secolo d’Italia. Volevo capire come lo avevano preso.
Cercando online mi sono dunque imbattuto nel pezzo che il Secolo d’Italia ha dedicato al libro, un pezzo firmato da Antonella Ambrosioni e intitolato programmaticamente «In un libro l’apologia dei calciatori di sinistra. Ma i “cuori neri” sono di più (e pure più bravi…)», un pezzo che mette in fila i giocatori dichiaratamente dell’altra sponda politica, simpatizzanti fascisti, calciatori di destra insomma. Che dire, potevo aspettarmelo, ma qualche problema, in fondo, c’era, eccome.
Scrive Ambrosioni:
Ci sono anche molti calciatori e allenatatori di destra, ma averlo dichiarato o aver espresso giudizi storici politicamente scorretti non ha dato la stessa aura di santità, anzi, li ha spesso relegati al ruolo di “figli di un Dio minore” o quantomeno guardati con sospetto, sufficienza, ironia, nella migliore delle ipotesi, in altre insultati, multati e additati alla pubblica riprovazione.
La giornalista del Secolo d’Italia qui fa passare per «figli di un dio minore» personaggi che salutano le proprie curve con saluti romani, che collezionano busti di Mussolini, che dichiarano apertamente simpatie fasciste per l’ordine, l’autorità, la disciplina, la patria, la religione cattolica e la famiglia.
E leggendolo ho visto ancor meglio quel campo da gioco in cui Peinado ha disegnato una linea per terra, separando due mondi: da una parte c’è chi ha lottato per ottenere dei diritti o per difenderli, c’è che si è schierato contro dittature sanguinarie, rischiando anche la vita, ogni tanto. Dall’altra c’è chi, in quelle stesse situazioni, sarebbe stato dalla parte degli aguzzini. Non posso decidere per voi da che parte stare, io, però, non ho dubbi.