C’era un tempo in cui la Cia organizzava complotti in Congo per uccidere Patrice Lumumba o piazzava conchiglie esplosive nei luoghi in cui a Cuba Fidel Castro faceva snorkeling. Poi venne la Commissione Church, che fece uscire gli scheletri dall’armadio, e il presidente Ford firmò un’ordinanza esecutiva che impediva le black operations dell’agenzia. Ma dopo l’11 settembre George W. Bush restituì a Langley i poteri perduti negli anni Settanta, o piuttosto li rafforzò, trasformando la Cia in una Killing Machine, come recita il titolo di un libro che Feltrinelli ha appena tradotto per il pubblico italiano.
L’autore del volume è Mark Mazzetti, giornalista del New York Times, premio Pulitzer per i suoi reportage dall’Afghanistan e dal Pakistan. Il titolo originale, che forse sarebbe stato meglio conservare, è The way of the knife. Mazzetti ha seguito l’evoluzione storica dell’agenzia, con un focus sull’ultimo decennio. Dimenticate i bar di Beirut, in cui carpire notizie a colpi di old fashioned, gli appostamenti, le infiltrazioni per rubare segreti militari ai governi stranieri. Roba vintage, rispetto a un joystick con cui dal deserto dell’Arizona si lancia un missile su un sospetto terrorista.
In un’epoca di revival televisivo sulle spie, il compito degli agenti non è più (tanto) quello di estorcere informazioni, o convincere un avversario a passare dalla propria parte, come accade alla Carrie Mathison di Homeland e ai protagonisti di The Americans, la bellissima serie ambientata nell’America di Reagan. La Cia è diventata una macchina di morte e contemporaneamente il Pentagono ne ha ereditato in parte le funzioni («un’agenzia di controspionaggio combatte una guerra e un’organizzazione militare cerca di raccogliere informazioni sul campo», scrive l’autore).
Lo spartiacque è l’11 settembre, dopo il quale gli Stati Uniti decidono di lanciare la guerra al terrorismo in tutto il pianeta, usando robot assassini e squadre speciali, pagando mercenari, mettendosi nelle mani di servizi segreti inaffidabili, dittatori imprevedibili, eserciti fantoccio raccogliticci. Mazzetti vede una linea di continuità tra Bush e Obama: “Le fondamenta di questo conflitto ombra sono state gettate da un presidente repubblicano e fatte proprie da un democratico progressista, che ha cominciato a considerarlo un’alternativa alle disordinate e costose guerre di occupazione”. Non più il martello, ma il bisturi, la precisione chirurgica (o meglio, il coltello di cui parla il titolo).
Il Counterterrorism Center della Cia, nato nel 1986 per volontà di Dewey Clarridge, in risposta al terrorismo internazionale, diventa il fulcro di questa strategia. Facile capire i motivi. L’agenzia risponde direttamente al presidente e può eseguire i suoi ordini più rapidamente e più in silenzio rispetto ai militari. Alle origine c’è il National Security Act del 1947, che autorizza la Cia a «ricoprire altre funzioni e doveri relativi alle informazioni che influenzano la sicurezza nazionale», una sorta di via libera alle cosiddette attività coperte: sabotaggi, campagne di propaganda, brogli elettorali, tentativi di assassinio.
Un’altra data da segnare sul calendario è quella del 16 febbraio 2001, giorno del primo test di un drone armato, a Indian Springs, nel deserto del Nevada («Gli Usa – scrive Mazzetti – stavano sviluppando una nuova arma per una guerra che non richiedeva che qualcuno andasse in guerra», in una logica opposta a quella della bomba nucleare: non un conflitto impossibile perché dalle conseguenze apocalittiche, ma un conflitto possibile perché esente da rischi). Qualche anno prima, il Predator, disarmato, era stato utilizzato come strumento di spionaggio nei Balcani. Qualche mese prima, l’attacco a un campo di addestramento vicino a Kandahar, in cui sembrava essere stato avvistato Osama bin Laden, era saltato per motivi di burocrazia, e di tempo.
Gli Stati Uniti avevano trovato uno strumento che colpiva in silenzio, la Cia un compito, quello di uccidere con il telecomando, tanto più che la relazione Helgerson, sugli interrogatori dei “nemici combattenti” catturati in Afghanistan e sull’arcipelago di prigioni segrete costruite in tutto il mondo, era stato un duro colpo per l’immagine di Langley. Il ragionamento è paradossale, ma reale: l’agenzia se la sarebbe passata molto meglio uccidendo piuttosto che imprigionando i sospetti terroristi.
Nel decennio successivo alla strage delle Torri Gemelle i compiti di Langley si sono intrecciati con quelli del Ministero della Difesa, anch’esso dotato di una propria Intelligence Support Activity e di un Joint Special Operations Command (Jsoc). Nell’era Rumsfeld non sono mancati i contrasti tra le due istituzioni, ma in seguito Pentagono e Cia si sono divisi il lavoro, trovando un modus vivendi, per cui i militari delle operazioni speciali venivano “colorati”, cioè diventavano temporaneamente agenti segreti (come avvenuto, ad esempio, per l’operazione bin Laden ad Abbottabad) .
Il racconto di Mazzetti segue tutti i fronti della guerra clandestina, incrociando personaggi improbabili, come Michele Ballarin, una signora di mezza età della Virginia, presidentessa di una ditta che vendeva giubbotti antiproiettile ai pompieri di Los Angeles, improvvisata informatrice nella Somalia degli al Shabaab. O figure pittoresche, come Michael Furlong, l’esperto di propaganda, il militare che stringe un accordo con la U-Turn Media, piccola e discussa azienda di Praga – inviava video pornografici a cellulari, per farsi un’idea – in modo da mettere a punto un videogame per telefonini, Iraqi Hero, in cui lo scopo è quello di consegnare miliziani fondamentalisti a una stazione di polizia, sventando così un attentato.
C’è lo Yemen dell’inaffidabile presidente Saleh (il capo di Stato che versa gli aiuti americani nei propri conti corrente in Svizzera), dove nel 2002 viene compiuto il primo attacco di un drone e 9 anni dopo viene ucciso un cittadino americano divenuto leader qaedista, Anwar al-Awlaki. C’è la Somalia, emblema di failed state, dove le armi inviate per il governo di transizione vengono rivendute nei mercati di Mogadiscio, così che il prezzo crolla e i terroristi ne approfittano. C’è ovviamente il Pakistan, dove la collaborazione coi servizi segreti locali, l’Isi, sembra funzionare – dopo l’11 settembre vengono catturati i luogotenenti di Bin Laden, come Khalid Sheik Mohammed – ma poi Washington scopre il doppio gioco (il Direttorato S dell’agenzia sostiene i talebani, la Rete Haqqani e Lashkar-e-Taiba, tre gruppi terroristici che Islamabad considera strumenti cruciali nella difesa contro l’India).
La Cia non abbandona l’attività classica di spionaggio, talvolta portata avanti attraverso la copertura degli aiuti umanitari, in Somalia o nel Kashmir, spesso condotta, per motivi di budget, in outsourcing, affidandosi a bizzarri mediatori, medici impegnati in strumentali attività di vaccinazione, servizi stranieri discutibili, milizie private (non solo la tristemente celebre Blackwater). Emblematica è la storia di Raymond Davis, un contractor dallo status ambiguo, un Green Badge (dal colore del tesserino che doveva mostrare per entrare a Langley), mandato in Pakistan a cercare informazioni su Lashkar e coinvolto in un doppio omicidio a Lahore, con conseguente crisi diplomatica.
Nel corso degli anni l’asticella dei droni si è abbassata sempre di più, con i cosiddetti signature strikes la decisione di lanciare missili può essere presa sulla base del semplice sospetto. Con una battuta Leon Panetta, uno dei personaggi chiave di questa strategia, assieme all’attuale capo della Cia, John Brennan, ha sintetizzato la sua esperienza: “Ho recitato più Ave Maria negli ultimi due anni che nel resto della mia vita”.
Da una parte, questa politica incontra il favore del pubblico americano, sempre più falco in materia di antiterrorismo e desideroso di non vedere la guerra sugli schermi della Cnn. Dall’altra, ci sono obiezioni di carattere morale e legale, oltre alla debolezza insita nella decisione di legarsi a regimi autoritari per raccogliere informazioni sul campo. Lo scoppio della primavera araba, che ha colto di sorpresa i servizi americani, ha mostrato quanto sia sbagliato appaltare funzioni tanto delicate. Eppure la guerra e l’intelligence in outsourcing, anche ai privati, non sembrano destinate a scomparire. Per usare le parole di Dewey Clarridge, “il trattato di Westfalia è acqua passata”