Non era ancora ufficiale e già la lista dei tagli presentata dal commissario Carlo Cottarelli è finita nel filtro di gomma della politica. Le anticipazioni con tanto di slide non sono state smentite da Palazzo Chigi ma ci si è limitati a dire che si trattava solo di una bozza e non del lavoro definitivo dell’economista chiamato a fare spending review. «Alcuni organi di stampa stanno alimentando una visione distorta», ha detto il ministro per la Semplificazione Marianna Madia, «del buon lavoro di Cottarelli». A non garbare sono state le indiscrezioni sui pensionamenti, turnover ed esuberi nel pubblico impiego, ovviamente.
Le slide del Commissario alla spendig review Cottarelli con le proposte per i tagli 2014-2016
Tant’è che il 18 marzo durante l’audizione al Senato Cottarelli ha confermato le scelte relative alla PA, riportate già nella bozza, ma evidentemente ha dovuto fare i conti con la necessità del governo di mediare il lavoro di revisione dei costi e di affrontare l’imminente appuntamento delle elezioni europee di maggio. In sostanza Cottarelli ha detto:
«Le cifre massime di risparmio sono di 7 miliardi su base annua se si fosse iniziato a gennaio».
Se partiamo a maggio «dai 7-8 si arriva a 5 miliardi, appunto da maggio in poi. Prudenzialmente si può contare di sicuro su 3 miliardi poi c’è un margine di incertezza – ha aggiunto -, tutto dipende dalle decisioni politiche e da quanto si vuole spingere su certe leve». Questi numeri, ha concluso, «sono aggiuntivi rispetto a legge stabilità». Dunque oltre alle rassicurazioni di rito (rivolte ai sindacati e alle altre parti sociali) il perno di tutto il ragionamento gira attorno ai 3 miliardi sicuri e agli altri di natura politica.
Il premier Matteo Renzi infatti aveva detto in televisione che per l’anno in corso le pensioni – anche quelle d’oro – non si toccano e di fatto ha depennato con una sola frase un quinto del potenziale lavoro del Commissario. Si comprende così perché Renzi abbia aggiunto che bisogna cercare al di fuori del perimetro iniziale di Cottarelli per arrivare almeno a coprire i 6,2 miliardi di minori entrate da riduzione del cuneo fiscale. Dando il via nei già nei giorni scorsi alla girandola di ipotesi attorno ai budget della Difesa: in primis sul programma degli F35, poi la vendita della portaerei Garibaldi e infine la dismissione di 385 caserme. Peccato che i primi 3 miliardi siano veri e gli altri di difficile comprensione. Figuriamoci di facile realizzazione.
Così se Cottarelli non ha ceduto sui potenziali 85mila esuberi nel pubblico (al 2016), ha invece definito le ipotesi di taglio sulla previdenza «solo uno scenario illustrativo», mentre sembra aver abbracciato l’idea del dimezzamento dei caccia F35 prodotti da Lockheed Martin con la partecipazione di Alenia Aermacchi. Abbracciando in pieno la proposta parlamentare del Pd di portare i velivoli da 90 a 45 per ottenere un risparmio di 6 miliardi. Senza spiegare però né in quanti anni dovrebbe avvenire il risparmio né quali effetti collaterali produrrà sull’economia italiana. Un po’ fumoso se si parla di spending review.
Il testo originario del Commissario (prima della “manomissione” politica) si basava infatti su 3 pilastri interessanti e insindacabili. Circa 10 miliardi in tre anni (800 milioni nel 2014) dai tagli per beni e servizi acquistati dallo Stato. Più di 6 miliardi e mezzo dalla riorganizzazione degli incentivi alle imprese (modello Giavazzi), a cui si dovrebbero aggiungere, sempre in tre anni, 5,4 miliardi dalla razionalizzazione delle partecipate statali e dai trasferimenti al trasporto ferroviario. Il terzo pilastro, di fatto stroncato sul nascere, è quello legato alle pensioni. Solo dal contributo temporaneo per i big della previdenza nel 2014 sarebbero potuti rientrare nelle casse dello Stato 1,4 miliardi. Per le indicizzazioni, l’allineamento del contributo delle donne e la revisione di reversibilità e guerra altri 5,7 miliardi. Quasi tutti spostati sul 2016. Va segnalato che anche il comparto Difesa già nella bozza originale non sarebbe stato esente dal bisturi. Cento milioni nel 2014, 1,8 miliardi nel 2015 e 2,5 nel 2016. Tanta roba. Legata alla riorganizzazione delle cinque forze di polizia tricolore e dei rispettivi presidi sul territorio. Anche qui tutto spostato nel biennio più lontano rispetto alle necessità attuali di far quadrare i conti. Diventate più impellenti per il fatto che Renzi, come scritto sopra, è andato a togliere uno dei tre pilastri principali del lavoro del Commissario.
Il governo, sapendo di aver segato una gamba, ha individuato proprio nel settore militare la riserva dove mietere tagli e al tempo stesso consensi elettorali (sempre in vista delle europee). E si è mosso in anticipo. Prima ha mandato avanti il ministro alla Difesa Roberta Pinotti che ha annunciato una revisione generale del comparto e poi, rispondendo ai giornalisti, ha lasciato intendere che il programma sul caccia F35 dal valore complessivo di 12 miliardi si può ridurre. Anticipando di fatto quanto dirà la relazione del Parlamento avviata lo scorso anno dopo la bocciatura dell’emendamento Pd e Sel sulla cancellazione degli F35. La relazione sarà resa pubblica ai primi di aprile e dunque il governo vede bene di intestarsela. Saggia scelta in termini elettorali, ma che, come è successo fino ad ora (quando si è discusso di F35), finirà nella propaganda e non nell’alveo razionale di strategie economiche (lasciamo perdere il pacifismo ideale).
Quando il governo Monti nel 2012 tagliò il numero di velivoli da 130 a 90 portò a casa una minore spesa di circa 3,5 miliardi. In conseguenza – come previsto dagli accordi tra governi e aziende partner – il numero delle ali affidate all’opera di Alenia è sceso da 1200 a 800 unità. Con un mancato introito di oltre 4 miliardi. Dimezzare l’ordine degli aerei adesso che l’Italia ha già investito 1,9 miliardi in ricerca e sviluppo e 1,7 in investimenti produttivi (l’investimento complessivo nel programma Jsf è già all’80%) rischia di avere impatti ancora più pesanti. Per ogni aereo tagliato (al valore attualizzato del 2018) ci sarebbe una minore spesa di circa 80 milioni di dollari e minore valore aggiunto per l’industria italiana della Difesa e per l’indotto di poco più di 150. Quasi il doppio. I numeri sono semplicemente la proiezione dello studio diffuso a fine febbraio da Pwc (PricewaterhouseCoopers) che ha calcolato l’impatto del programma Jsf sull’economia italiana (15,8 miliardi di valore aggiunto complessivo). Senza contare che prima del 2018, anno in cui entra nel vivo la produzione e che darebbe all’Italia i veri ritorni sul PIL, non è possibile disimpegnarsi dal programma. Semmai si potrebbe diluire il numero di velivoli già ordinati.
Eppure anche stavolta il Pd descrive l’eliminazione (riduzione) del Jsf come la soluzione dei mali contemporanei. Almeno dell’Italia. E sembra aver convinto anche Cottarelli della stessa cosa. Forse in parte, visto che ha tenuto a specificare, sempre durante la relazione al Senato, che il documento di spending review «sarà definitivo solo con il Def». Ciò la dice lunga su quante mediazioni andranno fatte prima della versione finale. La partita F35 è complessa. Se da un lato il Pd cavalca il taglio del programma Jsf dall’altro non si è mai espresso contro il prolungamento del progetto Eurofighter, molto caro a Finmeccanica. Anche se comunque pur sempre di aerei con bombe si tratta. Una riduzione dell’F35 inoltre non porterà comunque risparmi sostanziali nei tre anni analizzati da Cottarelli. Sugli altri fronti ci sarà da lottare con i sindacati sugli esuberi e anche la razionalizzazione delle partecipate pubbliche non sarà una passeggiata. Dunque quello che è chiaro è che al momento ci sono tre miliardi di risparmi certi. Gli altri tre sono nella testa di Renzi e di chi lo sostiene.