Gorky ParkCrimea, l’azzardo di Putin nel suo giardino di casa

Il referendum per l’annessione

Consumato il referendum in Crimea (con la scontata vittoria dei sì al ritorno sotto la Russia) e indipendentemente dal fatto che nel futuro prossimo la penisola sul Mar Nero entri o meno a far parte della Federazione Russa – su questo punto la diplomazia può avere ancora un ruolo – la crisi in Ucraina ha creato un’enorme spaccatura tra la Russia e l’Occidente. Non è un caso che la frattura – ancora sanabile sul medio periodo, sempre che l’ex repubblica sovietica non esploda prima, con l’effetto domino che dal Mar Nero risale verso il Donbass – si sia verificata sul dossier Kiev, aperto da due decenni e che gli attori in campo, interni ed esterni, hanno contribuito, ciascuno alla sua maniera, a rendere infuocato.

La questione di fondo è il posizionamento dell’Ucraina sulla scacchiera europea e internazionale. Dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, e soprattutto dopo la rivoluzione del 2004, primo episodio dello scontro aperto tra Russia e Occidente, Kiev ha sterzato sensibilmente verso ovest: più che verso l’Unione Europea, verso la Nato. Dal Cremlino, Vladimir Putin ha visto la Russia perdere influenza anche in Georgia (2003) e Kirghizistan (2005). Le rivoluzioni colorate a regia statunitense hanno agitato le acque russe, per due motivi: indebolendo l’area di influenza russa nello spazio postsovietico e costituendo l’esempio per quello un giorno potrebbe accadere a Mosca.

Per la Russia, più che per l’Europa e tantomeno per gli Stati Uniti, l’Ucraina è un partner importante e i legami tra Mosca e Kiev sono complicati quanto difficili da ignorare. Lo slittamento verso l’Unione Europea, propedeutico a quello verso l’Alleanza Atlantica, è sempre stato per Vladimir Putin lo scenario da evitare. Bruxelles (con il programma di Eastern Partnership) e soprattutto Washington (Nato) hanno lavorato in senso antitetico. Con Victor Yanukovich, il Cremlino ha trovato un appoggio non certo ideale, ma quantomeno pragmatico, con il quale cementare i rapporti strategici tra i due paesi. L’accordo del 2010 sul prolungamento della permanenza della flotta russa in Crimea sino al 2047 è stato il risultato.

La crisi nata sulla non firma da parte di Yanukovich dell’Accordo di associazione con Bruxelles e l’epilogo che ha portato al cambio di regime a Kiev hanno cambiato radicalmente le carte in tavola. L’intesa del 21 febbraio tra il presidente e l’opposizione, controfirmata dai ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia avrebbe dovuto ristabilire un equilibrio che invece la destra radicale di Pravyi Sektor e camerati vari ha rifiutato, conducendo alla fuga di Yanukovich e alla formazione di un nuovo governo filoccidentale. A Mosca la rottura del patto è suonata come le promesse fatte da George Bush a Gorbaciov e da Bill Clinton a Boris Eltsin di non allargare la Nato nello spazio dell’Europa orientale ed ex Urss. Nel giro di un quindicennio dieci paesi, tra cui le tre repubbliche baltiche, sono finite nell’Alleanza. La prospettiva che l’Ucraina facesse, o faccia, la stessa fine è il motivo fondamentale dalla reazione della Russia agli eventi di febbraio a Kiev.

Ma riprendersi Simferopoli mette al riparo dal futuro accesso di Kiev nella Nato? Dal punto di vista del Cremlino nell’operazione Crimea hanno giocato sostanzialmente due fattori, uno più geopolitico, l’altro più metafisico: la volontà di una risposta dura e anche asimmetrica alle interferenze americane in quello che è considerato il proprio giardino di casa (come nel caso della Georgia nel 2008) e il desiderio di Putin di essere ricordato nella storia della Russia come colui che ha ricollocato la Crimea al suo posto. Un po’ come Caterina II aveva portato l’Impero sino al Mar Nero, così Vladimir Vladimirovich ha riparato all’errore di Nikita Krushchov che nel 1954 aveva frettolosamente regalato la penisola a quella che allora era una delle repubbliche socialiste sovietiche.

La strategia del Cremlino sull’Ucraina pare però a corta gittata. I rapporti tra Mosca e Kiev, al di là di quale sarà lo status della Crimea, sono ora compromessi, esattamente come quelli con l’Europa – soprattutto con il prezioso partner tedesco – e naturalmente con gli Stati Uniti. Sanzioni diplomatiche, economiche e il rischio di una nuova Guerra Fredda non hanno spaventato sino a oggi Putin. E non è ancora chiaro se, quando e su quali basi ci sarà spazio per riaprire un dialogo. Troppo distanti le posizioni per immaginarsi ora qualsiasi ricucitura per una strappo che si fa sempre più profondo. Il Cremlino spera in sostanza che, lentamente e senza troppi scossoni, l’emergenza rientri, lasciando lo status quo di una Crimea de facto russa, de jure ucraina e congelata in una situazione come quella in cui si trova ora Cipro, esattamente quarant’anni dopo l’invasione della Turchia nella sua parte settentrionale.

L’isolamento della Russia sul palcoscenico internazionale è in realtà un wishful thinking che presuppone una visione del mondo ancora unipolare e sopravvaluta le opzioni reali. Stati Uniti e soprattutto Europa non sono più al centro di una scacchiera globalizzata e il Vecchio continente non si è mai mosso né si muoverà in maniera armonica. Anche se la risposta occidentale sarà forte, resta da vedere se sarà sufficiente a ricondurre il Cremlino a una sorta di compromesso o se invece darà il via a un cambiamento di prospettiva radicale che potrebbe a sua volta mutare gli equilibri su scala europea mondiale che più di tutti sfavorirebbero la Russia, ma indebolirebbero anche i singoli player. E alla fine i calcoli li potrebbero sbagliare tutti.

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