Con un altra mossa calibrata al millimetro, Mario Draghi ha chiuso la porta de facto a un imminente nuova azione per rendere più accomodante la politica monetaria della Banca centrale europea. Un gioco pericoloso, che espone la Bce a rischi ben maggiori di quelli che si possono immaginare di primo acchito. Ripresa moderata, ma non ancora omogenea. Frammentazione finanziaria in calo, ma non a una velocità tale da ripristinare i canali di trasmissione della politica monetaria. Inflazione prevista in aumento, ma solo a partire dalla seconda metà del 2014. Domanda interna troppo debole, domanda esterna troppo vulnerabile. È questo il contesto in cui si muove la Bce, più ottimista che mai. Un mood, quest’ultimo, che potrebbe irritare gli investitori più del calcolato.
Il meeting di marzo del consiglio direttivo della Bce era atteso più che nelle precedenti occasioni. Merito della presentazione delle prospettive macroeconomiche da qui al 2016. Come aveva ricordato pochi giorni fa Société Générale, «se il dato dell’inflazione attesa per fine 2016 sarà superiore a quota 1,5% sarà difficile aspettarsi un nuovo taglio del tasso di rifinanziamento principale». E infatti, quasi magicamente, il tasso d’inflazione stimato per l’ultimo trimestre del 2016 è 1,7 per cento. Tanto basta per mettere le mani avanti ed escludere nuove azioni sui tassi d’interesse principali. Niente taglio del tasso sui depositi, che non sarò portato a un livello negativo. Niente stop alla sterilizzazione del Securities markets programme (Smp), il programma di acquisto di bond governativi sul mercato secondario che è stato utilizzato prima delle Outright monetary transaction (Omt). Forse è stata dimenticata per sempre anche un’operazione per rivitalizzare il mercato delle Asset-backed security (Abs), che del resto avrebbe avuto un impatto limitato sia in Spagna sia in Italia, i due Paesi in cui i canali del credito sono ancora ben lontani dall’equilibrio. Stesso discorso per una versione soft del Quantitative easing (Qe) in stile statunitense o per una versione europea del Funding for lending scheme (Fls) britannico. E quindi? La Bce è in una situazione attendista. «Sono in questo limbo da mesi e non si capisce come mai non diano segnali più precisi», spiega a Linkiesta via email un senior trader della divisione Fixed income di BNP Paribas. «La forward guidance (indicazioni prospettiche, ndr) di Draghi è molto debole e il mercato si sta basando solo sulla credibilità del governatore, non certo sui meri dati macroeconomici», continua. Troppo poco, quindi?
Proprio come quando ha lanciato le Outright monetary transaction, Draghi ha voluto dare un triplice segnale. Il primo, forse il più importante, lo ha dato alla Germania. È come se la Bce avesse detto a Berlino “State sereni, non allenteremo ancora i cordoni della borsa, nonostante di fronte all’eurozona ci sia un prolungato periodo di bassa inflazione”. Un messaggio chiaro, capace di tranquillizzare i falchi della Bundesbank. Ma non solo. Il secondo segnale è stato dato ai Paesi periferici. Il mantra è sempre quello che ha contraddistinto l’approccio di Draghi fin dal suo insediamento a Francoforte. Senza riforme strutturali da parte dei governi degli Stati membri, la politica monetaria della Bce non è sufficiente a risolvere la peggiore crisi dell’euro dalla sua nascita. Il grosso del lavoro, pertanto, è nelle mani dei singoli. Dopo la Macroeconomic imbalances procedure (Mip) della Commissione europea, di conseguenza, occhi puntati su Italia e Francia, i due grandi malati d’Europa. Un messaggio chiaro e deciso che significa solo una cosa: se i Paesi che stanno invocando una politica monetaria espansiva hanno problemi con il credit crunch, meglio che adottino le riforme richieste da mesi dall’Ue.
Il terzo e ultimo segnale è stato indirizzato agli investitori internazionali. Assicurando che le prospettive di medio-lungo periodo sull’inflazione rimangono ben ancorate e non c’è il rischio di significative fluttuazioni, Draghi ha reiterato che la politica monetaria della Bce non guarda al breve termine. Può sembrare scontato, ma non è così. In un’eurozona in cui sia i governi sia le istituzioni hanno sempre più un orizzonte temporale a breve, la Bce va nella direzione opposta. È un bene o un male? L’impressione degli operatori è divergente. Secondo Deutsche Bank la Bce sta agendo nel migliore dei modi. Secondo Crédit Agricole si poteva e si doveva fare di più, specie sul fronte della forward guidance: «Un messaggio netto è sempre meglio di un messaggio sibillino».
Non è però tutto oro ciò che luccica. Considerando le stime d’inflazione pubblicate oggi, è facile comprendere quanto siano vulnerabili a shock esogeni. L’assunzione che il tasso d’inflazione della zona euro sia a quota 1,7% a fine 2016 mette la Bce al riparo dalle fronde periferiche, le quali puntano a un qualunque misura di alleggerimento, ma la espone alla congiuntura economica internazionale. Dopo aver visto quanto sia fragile la domanda aggregata globale, sia per colpa delle tensioni geopolitiche sia per via degli squilibri macroeconomici delle economie emergenti, cresce il timore che le stime della Bce siano state in effetti troppo positive, giusto per giustificare l’inazione. Ma è questo ciò che serve all’eurozona in questo momento? Nel caso la congiuntura peggiorasse, e la Bce fosse costretta a rivedere al ribasso le proprie previsioni, la credibilità di Draghi sarebbe parzialmente compromessa e lui presterebbe il fianco agli attacchi dei Paesi core dell’eurozona. «E probabilmente anche gli investitori inizierebbero a passare dalle parole ai fatti, andando al ribasso su diverse classi di asset europee, specie in vista dell’Aqr», conclude il trader di BNP Paribas. L’indole democristiana di Draghi, maestro del compromesso a ogni costo, rischia di rivelarsi fatale.
La sensazione è che Draghi voglia prolungare l’attuale periodo di calma apparente fino, almeno, al novembre 2014. Quando cioè saranno chiare le esigenze di capitale delle banche dell’area euro soggette all’Asset quality review (Aqr) e agli stress test. Un obiettivo nobile, ma difficile da raggiungere. Se è vero che gli indici Pmi (Purchasing managers’ index) stanno registrando un rilevante sussulto delle attività economiche nell’intera eurozona, è altrettanto vero che la maggior parte della ripresa che si è affacciata deriva dalla domanda esterna. La fragilità di quest’ultima è però elevata e i problemi di fondo dell’eurozona – dalla frammentazione finanziaria alla rottura del meccanismo di trasmissione della politica monetaria – sono ancora presenti, seppure in maniera ridotta rispetto al 2012. Uno scenario troppo incerto per dormire sonni tranquilli. E, senza il placet dei mercati finanziari, il fine tuning della Bce si farà sempre più difficile.