Via libera alla rimodulazione della tassazione delle rendite finanziarie. È questa la principale inversione di tendenza del governo di Matteo Renzi in ambito finanziario. Con una mano il governo propone di tagliare l’Irap di dieci punti percentuali, con l’altra presenta l’aumento delle aliquote sulle rendite finanziarie dal 20% al 26 per cento, a partire dal prossimo 1° maggio. Un possibile boomerang, nonostante il presidente del Consiglio abbia sottolineato che non saranno toccati i titoli di Stato. E a patire potrebbero essere proprio le imprese.
La rimodulazione di tali aliquote è da sempre uno dei capisaldi del centrosinistra. Trasferire ricchezza da una parte più abbiente a una meno è de facto una partita di giro. Nel migliore dei casi non porterà benefici, se non puramente d’immagine. Nel peggiore, i danni saranno elevati, ben oltre le previsioni del governo. Il piano su cui si sta muovendo il governo è infatti forse troppo inclinato. Il pericolo che sia tutta un’operazione di facciata è elevato. La redistribuzione tanto sognata potrebbe essere un miraggio. E il rapporto di fiducia tra Italia e mercati finanziari? Il timore che si possa compromettere è reale.
Ci sono, per l’appunto, alcuni aspetti che lasciano intravedere che ci saranno più danni che benefici. Il primo è legato alle stime del governo. Secondo Renzi il gettito previsto sarà pari a 2,6 miliardi di euro. Una cifra significativa, specie considerando che senza il supporto dei titoli di Stato, la cui aliquota resterà al 12,5%, si andrà a colpire una fetta di mercato molto più piccola. Ma non per questo meno importante, sia per la liquidità sistemica sia per il corretto funzionamento dei mercati finanziari. Come conciliare la riduzione della piscina da cui attingere con un aumento delle stime sul gettito, dato che la prima previsione parlava di circa 1 miliardo di euro? I dettagli tecnici sono ancora un mistero. Soprattutto perché colpendo di più gli investitori in classi di asset differenti dai bond governativi domestici c’è il timore di una diminuzione dei volumi negoziati. E farlo in mercati così sottili come quelli italiani, è l’equivalente di un suicidio. Allo stesso tempo, è lecito attendersi una minore diversificazione degli investimenti. In altre parole, potrebbe esserci un incremento dell’allocazione delle risorse sui titoli di Stato. Buono nel breve termine, complice l’attuale calma piatta dettata dalla Banca centrale europea (Bce) a livello di eurozona. Male nel lungo, perché aumenterà l’autarchia degli investitori domestici, che potrebbero effettuare aumentare la percentuale di bond governativi italiani in portafoglio, circa 183 miliardi di euro a fine novembre 2013 secondo i dati della Banca d’Italia. Uno scenario giapponese che non riduce la frammentazione finanziaria dell’area euro.
Il secondo aspetto controverso è legato alle dinamiche di mercato e al comportamento finanziario degli investitori, che siano domestici o che siano internazionali. Un aumento della tassazione sul capital gain su obbligazioni corporate, azioni, opzioni, futures e altre classi di asset rischia di creare un circolo vizioso sugli operatori finanziari. Come reagiranno questi ultimi? Si attenderanno altri balzelli? È stato difficile far tornare la fiducia sull’Italia, quindi perché tentare di minarla con una nuova imposta? Anche perché, nel caso fosse applicata sui titoli circolanti e non solo le nuove emissioni, l’operazione sarebbe alla pari di una patrimoniale, seppur nascosta. Non esattamente un segnale distensivo verso i mercati finanziari.
E così si arriva al terzo aspetto, il mercato delle obbligazioni corporate. Dato che il deleveraging bancario è ancora elevato, e questo si traduce nel credit crunch che limita al massimo i possibili canali di finanziamento per le imprese, è palese che queste abbiano iniziato a cercare risorse altrove. Dove? Sul mercato. Ovvero, nell’universo obbligazionario. Un settore, lo ha definito bene l’Association for financial markets in Europe (Afme) in un report riservato alla clientela istituzionale dello scorso ottobre, in crescita del 42% negli ultimi due anni in Italia. Vale a dire che più si chiudevano i rubinetti degli istituti di credito, più le Pmi cercavano altre vie per la liquidità. La maggiore aliquota sul capital gain potrebbe quindi assottigliare, e non si conosce l’entità di questa riduzione, un mercato che in realtà è diventato cruciale per le imprese. Giù l’Irap, ma giù anche l’attrattività del mercato dei bond corporate, una delle fonti di liquidità per le Pmi.
C’è infine un quarto aspetto, più tecnico. Dato che si parla di tassazione delle rendite finanziarie bisogna distinguere le due principali categorie di investitori secondo l’erario, ovvero nettisti e lordisti. I primi, rappresentati perlopiù dalla clientela retail (vedasi, famiglie e imprese), vedono applicata alla fonte la ritenuta sulle plusvalenze che derivano dall’operatività in prodotti finanziari. I secondi, che sono gli investitori istituzionali, vedono una tassazione ben differente, che dipende dal regime della dichiarazione all’erario. Traduzione: l’investitore istituzionale ha l’obbligo di dichiarare il risultato economico dell’operatività in prodotti finanziari e viene tassato in base alla fascia di aliquota in cui rientra. Stop. Nessun impatto della nuova misura di Renzi. Gli istituzionali continueranno quindi la loro normale attività, dato che non saranno colpiti dalla rimodulazione. E tutta l’iniziativa sarebbe stata inutile. Nel migliore dei casi, ovviamente.