I fiori del massacro, bellezza e orrore del Meifumado

Dal duo Recchioni & Accardi

Lo scorso novembre è uscito I fiori del massacro, quindicesimo volume de “Le Storie” Bonelli, sceneggiato da Roberto Recchioni (tra le varie cose, curatore di Dylan Dog, autore di Orfani, nonché blogger molto seguito) e disegnato da Andrea Accardi (John Doe, sempre con Recchioni, Lupin III). È il seguito ideale di un’opera precedente dello stesso duo d’autori, La Redenzione del Samurai, del 2012, per il quale rimando alle impeccabili considerazioni di Andrea QueiroloIl primo volume affrontava le implicazioni morali del Bushido, il codice etico dei samurai. Il tema è di grande interesse, e conduce il discorso sul terreno di una profonda cultura spirituale.

Come dice lo studioso Dickinson, «il feudalesimo giapponese convertì la rinuncia del Buddha nello stoicismo del guerriero… il samurai nipponico rinunciava al desiderio, non per entrare nel nirvana, ma per acquisire quel disprezzo della vita che avrebbe fatto di lui un guerriero perfetto»*. Il Bushido nel suo richiamo al presente della pura azione, del “qui e ora” dove tutto si svolge eternamente, è dunque un cammino in primo luogo spirituale. In termini yogici la filosofia samurai si potrebbe definire una visione rajasica. In altre parole, incentrata sul controllo e la liberazione della dimensione energetica della violenza e dell’aggressione.

Illuminante a riguardo la considerazione di Suzuki sui rapporti tra filosofia samurai e Zen: «… lo Zen vuole agire, e una volta presa una decisione, l’azione più efficace è andare avanti senza voltarsi indietro. Da questo punto di vista, lo Zen è veramente la religione del guerriero samurai»**.

Completamente diverso è il regno spirituale de I fiori del massacro, in cui si esplora uno degli aspetti più affascinanti e terribili della weltanschauung samurai: il Meifumado. A volte definito come “inferno buddista”, sarebbe in realtà più preciso tradurre il concetto di Meifumado come il “sentiero dell’inferno”, la via della dannazione. Non un luogo o una dimensione di castigo, ma un percorso esistenziale abbracciato volontariamente.

Sarebbe segno di grave miopia culturale confinare simili categorie morali come bizzarro appannaggio di una cultura esotica, a noi estranea. Il valore di tale sguardo sull’abisso interiore è universale. Non a caso il grande Akira Kurosawa trasse in Trono di Sangue una delle più profonde meditazioni sul tema da una pietra miliare della letteratura occidentale, il Macbeth (e stesso discorso si potrebbe fare al contrario sullo sguardo filosofico di Shakespeare, vicino nei suoi picchi sublimi alle riflessioni della sapienza orientale, Bhagavad Gita in primis).

Il grande precedente fumettistico è incontestabilmente Lone Wolf and Cub, classico manga Gegika (di argomento drammatico) ideato da Kazuo Koike per i disegni di Goseki Kojima. Dopo il clamoroso successo popolare in Giappone nel 1970 (che porterà a numerose riduzioni teatrali, televisive e cinematografiche), l’opera fu riproposta verso la fine degli anni ’80 in America, impreziosita dalle copertine di autori quali Frank Miller e Bill Sienkiewicz.

La sfida è difficile. Quando si affronta un genere nobile, codificato da secoli, il confine tra fedeltà filologica e rifugio nello stereotipo è quanto mai labile è insidioso.

Al termine di alcune riletture possiamo serenamente affermare che gli autori, pur al severo cospetto di imponenti pietre miliari del genere, hanno portato a compimento un’opera di indubbia dignità.

Rispetto alle cruente asprezze del segno epico di Kojima, il tratto di Accardi si esalta nell’elegante possesso formale di tutti i tòpoi classici della iconografia chambara (schematizzando brutalmente, il genere cappa e spada giapponese, al quale possiamo ascrivere anche capolavori come I sette Samurai di Kurosawa). Ma, attenzione, sarebbe imperdonabilmente superficiale ridurre a mera calligrafia la prestazione grafica di Accardi. Oltre la notevole abilità di dettaglio tecnico che a ogni tavola viene offerta alla nostra contemplazione, il disegnatore crea l’incanto di atmosfere da esperto mangaka, temperate dal gusto dell’equilibrio tipicamente occidentale. Un piccolo prodigio creativo. Nella scia dell’impareggiabile esempio di Magnus, a cui riuscì, nell’opera (oscena nei contenuti, stupenda graficamente) Le 110 pillole, la sontuosa sintesi dei due mondi fumettistici, orientale e occidentale.

Una nota sui testi
Il ritmo serrato di dialoghi asciutti e incisivi è marchio distintivo delle sceneggiature di Recchioni. Non è stato, quindi, questo aspetto a sorprenderci, ma il garbo poetico degli haiku attribuiti alla protagonista Jun Nagaiama, dietro la cui riuscita si intuisce lungo studio ed esercizio. Come è stato correttamente notato, il rapporto tra testi e immagini è compiuta simbiosi

Due considerazioni a margine su soluzioni formali che hanno attratto la nostra attenzione
Chi scrive ha una visione diversa da Recchioni sull’esposizione della sessualità femminile, ma in questo contesto iconografico è di innegabile pertinenza la rappresentazione dello shibari (spesso tradotto come “l’arte giapponese di legare una persona”). Se per un verso l’intento può essere inteso come quello di portare elementi contenutisticamente trasgressivi nel mainstream, per l’altro Accardi riesce a rispettare la solennità formale dell’antico simbolo. Mi preme ricordare come ben prima di diventare un antenato del bondage, questa pratica rituale aveva un profondo significato religioso (religio, del resto, significa proprio “legare insieme”).

Infine, osserviamo la compiuta vendetta finale (il “massacro” annunciato nel titolo, nel quale ci piace ravvisare un’eco baudelariana). A una lettura superficiale non può non far pensare a Kill Bill, essendo del resto Tarantino autore di riferimento di Recchioni. Ma, in realtà, l’ispirazione è altra, anteriore e comune allo stesso celebre film, e trova le sue fonti nei classici della letteratura di genere (è lo stesso Recchioni ad averci indicato come principale riferimento Lady Snowblood, film tratto dal manga del già citato Kazuo Koike, più volte omaggiato nella pellicola tarantiniana). Per quel che ci riguarda, ben più antiche sono le radici di tali apoteosi sanguinarie dell’Eterno Femminino. Non solo lo sa Tarantino, visto che lo stesso nome dell’attrice/icona del film, cioè Uma, è uno dei nomi della Devi indiana. La Dea incaricata (ad-vocata come Maria) nel mito sacro di vendicare gli dèi spodestati, massacrando i demoni e ristabilendo la giustizia. Evidentemente, lo sanno anche Recchioni e Accardi, visto che l’espressione finale della protagonista, inebriata dal sangue dei nemici, evoca lo splendore furioso della Dea Mahakali (portando ovviamente la vendetta da un piano di giustizia divina a quello della violenza umana).

Al di là delle diverse sensibilità e visioni contrapposte, a conti fatti siamo di fronte a una delle opere più degne di considerazione e feconde di spunti del mainstream nostrano.

P.S.:
Recente è la notizia che le storie di Recchioni e Accardi ambientate nel Giappone feudale, considerato il positivo riscontro di critica e pubblico, diverranno una nuova serie indipendente per la Bonelli . Una conferma anche delle nostre intuizioni che ci è giunta ad articolo ultimato. E che non può che farci piacere.

* I segreti dei Samurai Ratti/Westbrook Ed. Mediterranee, pag. 475
** Ivi, pag. 483

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