Esce solo oggi nelle sale il film di Walter Veltroni, ma, a soli sette giorni dall’anteprima, è già diventato, senza che sia ancora stato proiettato in pubblico, molto più di una scommessa cinematografica, quasi una sorta di referendum consultivo sulla politica e sul costume della nostra storia più recente.
Forse non tutti sanno che “Quando c’era Berlinguer”, non sarebbe dovuto uscire nelle sale, e che era destinato esclusivamente alla programmazione sul satellite, prodotto su commissione, dalla Palomar, per Sky. Era un documentario pensato per la tv e i 150mila euro di investimento (più o meno) che è costato, sono diventati nulla rispetto al lancio incredibile che ha portato il film in oltre 60 sale, dal momento che gli esercenti cinematografici si sono precipitati a richiedere una copia da programmare, dopo l’imponente anteprima con Giorgio Napolitano all’Auditorium di Roma. Quello che ha fatto la differenza, dunque, oltre alla stupefacente capacità promozionale dimostrata da Walter Veltroni (ne abbiamo già scritto), è l’incredibile costante per cui in Italia il passato non passa mai, e le grandi storie controversiali sono ancora il cuore del dibattito e dell’identità italiana, persino per coloro che, come gli ormai celebri ragazzi immemori che aprono il film (con i loro strafalcioni sull’identità del segretario comunista) abbiamo dimostrato.
Ma intorno a questo documentario, come testimoniano le rassegne stampa di questi giorni, si sono aperti anche un problema politico e una battaglia memoriale: il problema politico, e quello disegnato dalle polemiche, e dai dubbi che hanno contrappuntato i tanti cori e le tante lodi suscitati dal film. Veltroni, infatti, fin dalla raccolta delle testimonianze, ha scelto di tenere fuori dalla mischia, fuori dal racconto, la stessa generazione politica di dirigenti di cui fa parte. E infatti, anche se gli ex “quarantenni” erano tutti i presenti alla proiezione dell’auditorium, sul grande schermo non hanno parlato dirigenti tanti importantissimi per la storia post comunista, a partire da Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Fabio Mussi, Piero Fassino, Livia Turco – e, ovviamente – Massimo D’Alema.
Fin dalla sera dell’anteprima, alcuni di loro hanno manifestato il dispetto per questa scelta, alcuni con la rabbia, altri con il sarcasmo. Claudio Velardi – ex consigliere di D’Alema – ha scritto che Veltroni ha raccontato non Berlinguer, ma la sua autobiografia, in un film incompleto. Claudio Petruccioli si è lamentato così: «Potevano dircelo prima, che il Pci è finito nel 1989!». Infatti, come ho già scritto, uno dei cardini centrali di “Quando c’era Berlinguer”, è la considerazione che insieme al segretario del partito comunista, è finita – ante litteram – anche la storia del partito che aveva diretto.
Ma le polemiche sono esplose anche tra gli ottuagenari intervistati, come Aldo Tortorella ed Emanuele Macaluso: divisi per una testimonianza che Tortorella e lo stesso Veltroni rendono nel film, raccontando che nell’ultima direzione Berlinguer era rimasto solo, isolato dopo gli attacchi della destra interna del partito. Eppure, in “Quando c’era Berlinguer”, due dei testimoni privilegiati, sono proprio lo stesso Macaluso, e Giorgio Napolitano. L’ex direttore dell’Unità si è risentito, e ha raccontato a Tommaso Labate del Corriere della Sera di essere andato a rivedere i verbali di quel l’ultima direzione conservati all’Istituto Gramsci, per verificare se fosse vera o no l’affermazione fatta da Tortorella: «La frase citata da Aldo non c’era!», ha detto Macaluso, che è pignolo e meticoloso da sempre. «No, non è stata trascritta», ha ribattuto Tortorella, proprio perché era troppo dirompente.
Non è una questione per iniziato o addetti ai lavori, ma un dibattito che dimostra che il film abbia centrato, anche a distanza di trent’anni, alcuni dei nodi interpretativi più importanti, anche nel presente. Dire che Berlinguer era isolato, nel momento in cui diventava il leader più amato, infatti, vuol dire anche porre il problema, che negli anni successivi fino ad oggi sarebbe stato devastante, ovvero interrogarsi su quando è nata la vocazione autolesionista della sinistra italiana, il vizio di divorare I propri leader. Il cannibalismo che ha attraversato la storia del Pci-Pds-Ds-Pd, è nato in quei mesi del 1984.
La seconda considerazione, invece, è ancora sulla mitografia di Berlinguer: la curiosità crescente intorno a questo film non è una invenzione dei media, ma il fatto che un sentimento forte di nostalgia si accompagna all’aura della storia di Berlinguer. Il senso del bene rifugio nasce anche da questo rimpianto, dall’idea che c’è stata una stagione in cui gli eroi, come direbbe Guccini erano davvero giovani e belli, dall’idea che quel funerale collettivo in piazza che Veltroni recupera dagli archivi del Movimento Operaio, non era solo un commiato ad un leader, ma il rito di celebrazione di una identità che si sarebbe estinta di li a poco. Capire quante persone andranno in una multisala a vedere un documentario di due ore, pagando un biglietto, e senza occhialini in 3D, sarà un test molto importante: non per capire come eravamo, ma come saremo. Sarà – anche oltre le intenzioni di Veltroni – un referendum politico sui valori di riferimento della politica di domani, con la certezza e la malinconia di sapere che – dai Morandi ai Vianella, dalla musica alla politica, al cinema – questo è un Paese che prova emozioni solo in un immaginario vintage.