Se il giornalismo fosse un campionato di calcio, Pierre Omidyar sarebbe oggi il re del mercato, il Florentino Perez dell’informazione. Dopo avere “acquistato” Glenn Greenwald dal Guardian ed avergli chiesto di dirigere un magazine d’inchiesta incentrato su temi come la sorveglianza governativa e lo spionaggio internazionale, The Intercept, il miliardario fondatore di eBay ha piazzato il secondo grande colpo stagionale, strappando la penna di Matt Taibbi – in grado di coprire l’intersezione tra politica ed economia mescolando serietà e ironia – alla redazione di Rolling Stone, dove soggiornava da 10 anni. Taibbi, definito dal direttore esecutivo di First Look Media Eric Bates come «uno dei giornalisti più influenti della sua epoca», sarà incaricato di reclutare a sua volta una squadra di giornalisti giovani e talentuosi per lanciare un nuovo magazine, che vedrà la luce nella seconda parte del 2014.
Greenwald e Taibbi come Cristiano Ronaldo e Kakà; l’inverno 2014 di First Look come l’estate del 2009 per il Real Madrid. Dalla sua pomposa campagna acquisti, però, Pierre Omidyar si aspetta risultati diversi da quelli raggiunti dalla formazione spagnola, che negli ultimi anni è riuscita – nonostante dispendiose premesse – ad aggiudicarsi soltanto una Liga, una Coppa del Re, una Supercoppa e nessun trofeo internazionale. Le ambizioni di Omidyar si svelano passo dopo passo, così come scopriamo un pezzo di puzzle alla volta: da qualche giorno, ad esempio, sappiamo che First Look Media sarà costituita da un sito principale, ancora in fase di costruzione, attorno al quale graviteranno realtà più piccole, ognuna della quali focalizzata su un argomento specifico (sport, finanza, tecnologia, scienza…), che contribuiranno ad alimentare il sito “portante” con contenuti di alta qualità.
Quello che appare chiaro fin da subito, è che Omidyar ha deciso di porre le persone al centro del suo progetto: il magnate non sta selezionando soltanto cervelli, ma anche “personaggi” dotati di carisma internazionale, gente in grado di rendere ogni storia un evento, di creare e veicolare il dibattito senza alzare il tono della voce, di imporsi all’interno di un contesto redazionale evitando autoritarismi. Così, nella redazione di The Intercept, Greenwald si considera un primus inter pares, un giornalista come gli altri. «Vogliamo evitare la classica struttura gerarchica» propria di un’azienda editoriale «dove i direttori sono i capi e rappresentano un ostacolo alla pubblicazione», ha spiegato al Guardian. Il che non significa che ogni reporter possa fare ciò che vuole o pubblicare ciò che meglio crede senza revisioni o fact checking, ma piuttosto che «i direttori devono diventare uno degli strumenti a disposizione dei giornalisti» all’interno di un contesto «più collaborativo» del consueto. Un intento che si riflette anche graficamente, nella pagina del team sul sito di The Intercept, dove tutti – direttori e collaboratori – sono uguali e i nomi vengono elencati in rigoroso ordine alfabetico.
Il nuovo giornalismo di First Look Media comincia, dunque, da una rivisitazione strutturale, che considera ogni giornalista non più come un elemento accessorio, ma come un ingranaggio insostituibile dell’intera macchina. «Ritorneremo a quello che è stato perso – il supporto, vitale ma costoso, spesso trascurato nell’era digitale», ha spiegato il finanziatore del progetto in un video programmatico pubblicato sul sito ufficiale della compagnia. Per fare questo, Omidyar investirà diverse centinaia di milioni di euro per “coccolare” i propri giornalisti: «Daremo loro tutto quello di cui hanno bisogno per svolgere bene il proprio lavoro: la libertà di viaggiare; protezione legale quando la necessiteranno; tecnologie nuove e innovative. E la risorsa più rara di tutte: il tempo e il supporto organizzativo per sviluppare le proprie competenze». Parole che suonano piacevolmente anacronistiche, in un contesto lavorativo, quello dell’informazione, dove la manodopera del giornalista è considerata dagli editori sempre più come un fattore marginale e marginalizzabile nel processo produttivo di un giornale.
Se le premesse verranno rispettate lo scopriremo nei prossimi mesi. La realtà di First Look Media al momento si chiama The Intercept: e il sito, lanciato lo scorso 10 febbraio, non è sembrato esattamente innovatore. Costruito su un basico tema WordPress, il magazine ha poche sezioni – una si chiama “Voices”, un’altra “Documents”, un’altra “Glenn Greenwald” e raccoglie i dispacci del direttore – e funziona esattamente come un blog, senza spazio per contenuti mutlimediali, visto che di video ed immagini non c’è quasi traccia. Eppure, nonostante l’impostazione tradizionalista, The Intercept è già riuscito ad imporsi come media attendibile, scatenando un dibattito attorno ad ogni articolo pubblicato (la media è di 250 commenti a post). Il pezzo più commentato fino ad oggi, sull’attività online degli agenti segreti delle agenzie di sicurezza («How Covert Agents Infiltrate the Internet to Manipulate, Deceive, and Destroy Reputations»), ha totalizzato oltre 1150 commenti. E il sito, secondo quanto riferito da Greenwald, ha già «centinaia di migliaia di visite».
La strategia parola-centrica adottata fino a questo momento da The Intercept, dunque, sembra vincente. Il giornale di Greenwald rispecchia la mentalità dell’intera compagnia, foriera di un approccio “people first” – sia che queste people siano i giornalisti, i lettori o, in senso più ampio, i cittadini. È a loro che First Look Media vuole offrire il proprio servizio: «Non vogliamo solo costruire una grande organizzazione di informazione, vogliamo contribuire al bene comune», ha detto Omidyar. Come dire: potremo anche utilizzare algoritmi e software per raccogliere le notizie e robot per scrivere gli articoli, ma alla fine la mediazione umana resterà sempre il valore aggiunto del giornalismo. È, questo, un messaggio fondamentale, ma quanto affidabile in ottica futura? È troppo presto per stabilire se First Look Media rappresenterà il futuro, anche perché, come scrive Philip di Salvo su Wired, «la filantropia funziona fino a quando ci sono i soldi». Fare della buona informazione è una questione di mani e di cervello, ma anche di ossigeno nei polmoni: ben vengano le sperimentazioni, ma la strada maestra verso il domani del giornalismo deve passare attraverso la sostenibilità di un modello. E il modello Florentino Perez ha già dimostrato, senza appello, di non essere quello vincente.