Arriva in Italia Barack Obama, e si rinnova il mito dell’americano a Roma, che non è mai cosmopolita, ma piuttosto strapaesano – uattsamerica!!! – perché il nandomoriconismo è la contraddizione comica generata dal sognare a stelle e strisce e il mangiare bucatini.
Arriva Barack mentre la sinistra europea vacilla, i populismi votato a destra divorano il consenso che un tempo era appannaggio delle opposizioni progressiste e forse sarebbe utile provare a guardare a Obama non come ad un santino oleografico, ma come una strada, un percorso di cose realizzate, malgrado tutto, nel tempo della crisi.
C’è stato infatti un Obama che aveva solfeggiato in rap il suo “Yes we can” suscitando speranze epocali, un Obama molto scenografico, che era davvero pop, trasfigurato nella tricromia post-wharoliana del “change”, il celebre quadro-ritratto stilizzato in rossoblu e color panna.
E c’è stato invece un Obama di governo, molto simile al Lula di governo in Brasile, che ha lasciato delle tracce. Sono rimasto colpito dalla riflessione autocritica e caustica dell’ex ministro della cultura di Mitterrand, Jack Lang: «Questo voto – ha detto parlando del successo di Marine Le Pen – è un segnale di allarme: non so quali risposte e quali cambiamenti provocherà, se li provocherà. Ho sempre pensato che la politica debba essere audace, coraggiosa, creativa. La voce della sinistra oggi – aggiunge Lang parlando della Francia, ma potrebbe essere l’Italia – è debole. Quale visione, quale concezione del futuro ha? La sinistra deve rinnovarsi profondamente, non è più abbastanza ambiziosa».
Ecco, se si vogliono i fili di un’unica storia da un capo all’altro del mondo, Obama ha il merito di aver cercato una sua via dentro la catastrofe della crisi. Anche i più feroci critici di oggi, per esempio, dovranno riconoscergli come una medaglia il salvataggio dell’industria dell’auto, che era decotta, e che senza le operazioni obamiane di finanziamento su Chrysler e GM sarebbe sicuramente fallita lasciando dietro di se un vero e proprio buco nero. Sarà stata una vecchia ricetta keynesiana, quello dell’aiuto di stato, ma è una ricetta che ha funzionato. E quando penso a quel salvataggio penso alle parole dell’ex presidente Lula, che sbarcando in Italia ha detto a La Repubblica: «Siamo uno dei paesi che è cresciuto di più al mondo, e abbiamo scelto, malgrado le critiche di difendere i posti di lavoro piuttosto che gli indici economici».
Adesso i numeri del Pil dell’Unione Europea crescono con il contagocce nei confronti degli Stati Uniti e del Brasile, e la sinistra europea deve scegliere se privilegiare le pensioni o i non garantiti, i vincoli di bilancio o la generazione del lavoro. È l’Obama con i capelli brizzolati e l’immagine ferita dalle insidie della crisi quello che è riuscito a vincere, stringendosi nell’abbraccio con Bruce Springsteen. La rockstar si era detto deluso dal primo mandato, Obama ha fatto atto di contrizione, lo ha incontrato su di un palco, è stato stretto nell’abbraccio di Bruce, che gli portava idealmente in dote il fantasma di Tom Joad, il simbolo dell’America dolente, l’America senza fanfara, l’America di Steinbeck e non quella di McDonald. In questi due giorni sarebbe bello se le classi dirigenti italiani non guardassero a Obama come una rockstar, ma piuttosto che lo vedessero come un simbolo del riformismo possibile.