Le cause della bassa crescita in Italia non sono da attribuire all’euro, quanto piuttosto a una serie di fattori strutturali che da anni limitano notevolmente la nostra economia e rendono le nostre imprese poco competitive sui mercati.
Prima di pensare a un aumento della spesa pubblica attraverso politiche di stampo keynesiano, soprattutto in periodo di spending review, sarebbe opportuno lavorare ad interventi che migliorino la competitività delle nostre imprese. Ciò va fatto principalmente ridisegnando le regole del gioco, permettendo solo ai migliori di stare sul mercato. Questo significa che occorre lavorare al fine di aggredire e risolvere i problemi della corruzione, ridurre l’evasione fiscale, aumentare la certezza del diritto ed eliminare le tante inutili complicazioni burocratiche.Questi però sono solo alcuni dei fattori che minano le regole della libera concorrenza, facendo aumentare i costi di produzione delle nostre imprese con il rischio, spesso, di metterle fuori mercato (vedi il recente caso della Mivar).
Esistono, poi, altri fattori che incidono in modo più diretto sui costi delle imprese, e che sono legati all’acquisto degli input di produzione. Questo accade in modo particolare in tutti quei settori in cui il mercato del bene in questione non è “libero”. Secondo la teoria economica, i fattori di produzione di un’impresa possono essere convenientemente raggruppati in quattro categorie: lavoro, capitale, input intermedi ed energia. Nelle economie di mercato è lecito assumere che capitale e input intermedi possano essere acquistati da parte delle imprese in mercati concorrenziali, in quanto dominati da imprese private. Il prezzo cui le imprese comprano questi beni può definirsi a buona ragione un prezzo “non distorto” e, pertanto, non dovrebbero crearsi problemi di discriminazione tra imprese italiane e imprese estere.
Al contrario, per quanto riguarda lavoro e energia, la situazione cambia leggermente, poiché lo Stato gioca un ruolo importante nella determinazione dei prezzi. Per il lavoro sappiamo tutti che il costo in Italia è notevolmente superiore a quello di altri Paesi avanzati a causa del cuneo fiscale (determinato dallo Stato). In modo simile, il costo dell’energia è fortemente influenzato dal ruolo che lo Stato può avere nel mercato (prezzi amministrati). In entrambi i casi esiste, quindi, una discriminazione tra le imprese, a secondo di come i diversi Stati decidono di intervenire nel processo di determinazione dei prezzi.
Nel caso italiano il recente dibattito sul problema del costo del lavoro sembrerebbe quasi suggerire che il cuneo fiscale sia il fattore principale (e forse unico!) della mancanza di competitività delle imprese italiane. Eppure, la relazione tra la spesa energetica delle imprese e la loro competitività è una questione centrale soprattutto nel nostro Paese in cui l’energia elettrica per le aziende ha un prezzo unitario maggiorato rispetto ai competitor europei, rappresentando una fonte di svantaggio competitivo per le imprese italiane.
Per capire quanto il costo dell’energia sia importante sulla competitività, e quindi sulla capacità di crescita delle nostre imprese è utile consultare un recente studio di Ivan Faiella e Alessandro Mistretta (rispettivamente Banca d’Italia e Università di Tor Vergata) che ha permesso di quantificare i costi che le imprese italiane devono sopportare in termini di gap di prezzo con altri Paesi europei.
Secondo gli autori, nel 2011le imprese manifatturiere con almeno 20 addetti hanno speso in media 740 mila euro per i loro acquisti di energia, con un aumento del 61 per cento rispetto al 2003. Tali costi sono più elevati per le imprese localizzate al Nord, di maggiori dimensioni e che operano nei settori della produzione di materiale da costruzione e ceramiche e in quelli della chimica e petrolchimica.
Per avere un ordine di grandezza, consideriamo che, secondo l’Eurostat, nel 2011 il prezzo dell’energia elettrica pagato dalle imprese italiane era superiore di circa il 33% rispetto a quello pagato dai dai concorrenti europei; viceversa quello del gas naturale era inferiore di circa il 10% rispetto alla media Ue. Tali differenze sono in massima parte dovute all’imposizione fiscale sull’energia: nel 2011 la tassazione per unità di energia finale ammontava in Italia a 211 euro per tonnellata equivalente di petrolio, un valore che supera del 15% la media europea.
Inoltre, dalle analisi di Faiella e Mistretta emerge che i costi dell’energia pesano in modo particolare sulla capacità di esportare. In particolare, le imprese caratterizzate da una maggiore incidenza del costo energetico mostrano una peggiore performance aziendale, valutata in termini di minor crescita del fatturato. Ciò è in parte dovuto a una minore probabilità di esportare e, per chi esporta, a una propensione inferiore all’export. Inoltre, cosa molto interessante, i risultati dello studio mostrano che l’effetto negativo del costo dell’energia sulla propensione all’export è superiore dell’impatto negativo del costo del lavoro. Infine, gli autori riportano una serie di simulazioni da cui emerge che, a causa del maggiore prezzo dell’energia, il sistema manifatturiero italiano ha perso fatturato per un ammontare complessivo di circa 11,6 miliardi di euro l’anno nel periodo 2003-2011.
Le evidenze qui sopra riportate ci permettono di trarre alcune conclusioni interessanti. Innanzitutto, se accettiamo i risultati di questo studio, non è assolutamente vero che uscendo dall’Euro risolveremmo il problema della crescita: al contrario, sarebbe ipotizzabile un aumento considerevole dei costi dell’energia per gli imprenditori italiani e, quindi, minore crescita. Ciò implica che l’Euro non può essere considerato la causa della scarsa competitività delle imprese italiane.
Infine, sebbene i risultati sopra descritti testimonino l’erosione della capacità delle nostre imprese di generare valore a causa degli accresciuti costi dell’energia, è sorprendente vedere come, nel dibattito politico corrente, tale argomento sia spesso affrontato solo in modo marginale, mentre domina il tema (comunque giusto) del costo del lavoro. Spesso, politici italiani quando fanno scelte di politica economica lo fanno basandosi più su ciò che fa “tendenza” nell’elettorato o in alcuni circoli mediatici, che su analisi scientifiche e oggettive. Fortunatamente, le nuove misure annunciate da Renzi prevedono anche un taglio del 10% al costo dell’energia per le imprese; un importante intervento finalizzato a ridurre lo “spread energetico” tra l’Italia e il resto d’Europa.