Fateci caso: in questi strani giorni ci sono due idee dell’Europa che sono in lotta l’una contro l’altra, Ma fra queste non si affaccia ancora l’Europa dei popoli che tutti dichiarano di vagheggiare, ma per cui nessuno ancora si batte. I colori dominanti dell’Europa, oggi, non sono più il rosso e il nero letterari di Stendhal, ma il viola e il verde delle cronache concitate di queste ore. Da un lato c’è una maglia viola della Fiorentina indossata da un calciatore tedesco, dall’altra una muta verde mimetica, quella dentro cui si nascondono i soldati senza contrassegno di Putin.
Nel primo campo c’è l’Europa di Angela Merkel, l’Europa del rigore fino a ieri spietata, che oggi ci mostra sua faccia bonaria, con il nulla osta all’aumento del debito strappato da Matteo Renzi. L’Europa del rigore allenta la sua morsa, forse perché si sente insidiata dall’offensiva dei partiti anti-euro, quelli che in questi giorni spiccano il volo nei sondaggi in tutti i paesi del Vecchio Continente compreso il nostro (dove Forza Italia e Movimento Cinque stelle si spartiscono il campo degli euroscettici, e la lista Tsipras dichiara di volere “un’altra Europa”). L’Europa del possibile dialogo oggi indossa la maglia di Mario Gomez che Renzi ha regalato alla cancelliera tedesca, in una sorta di simbolico gemellaggio tra squadre, che punta a recuperare consenso tra i cittadini provati da tre anni di austerità.
Dall’altro lato della storia, però, c’è l’Europa delle armi: un rischio che tendiamo a rimuovere, ma che è tornata farsi sentire in Ucraina, in una incredibile assonanza con il 1914. È come se a beneficio degli immemori si celebrasse il sanguinoso compleanno del secolo breve battezzato a Sarajevo con l’attentato all’arciduca. Nelle immagini queste ore, tra le maglie colorate della diplomazia parallela e quelle paramilitari dei soldati russi che hanno preso militarmente la Crimea, l’Europa pacificata dell’Unione e quella belligerante dell’occupazione non convenzionale, sono meno lontane di quanto non si possa immaginare, poco o nulla le separa. Molti temono una nuova Jugoslavia sulle rive del mar Nero, ma forse a Bruxelles qualcuno immagina anche che, dopo aver poggiato le sue gambe fragili su una moneta, l’Europa dell’unione potrebbe sentirsi unita contro un nemico perfetto come Putin, stabilizzata da una guerra civile contro un nemico da nuova guerra fredda. E il rischio di una deflagrazione diventa concreto, soprattutto se, visto che l’appetito vien mangiando, il presidente della Russia dovesse farsi prendere dalla tentazione autocratica di far seguire l’occupazione della Crimea quella delle province meridionali dell’Ucraina, a cominciare dal bacino minerario del Donbass.
Non è uno scenario improbabile: perché i dittatori navigano a vista, e la tentazione di occupare il vuoto politico lasciato dall’unione potrebbero spingere Putin ad approfittarne, opponendo il suo decisionismo autocratico all’indeterminatezza delle democrazie occidentali. Tra le divise degli eserciti e quelle delle valute, il voto di maggio sarà l’unico termometro che potrà dirci se tra gli abitanti del continente la febbre sale, se prevale il consenso verso le istituzioni o la rabbia. Abbiamo quasi rimosso che la guerra civile a Kiev è iniziata perché buona parte degli Ucraini protestavano contro Yanukovich reclamando l’ingresso nell’Unione. Perché oggi il grande paradosso dell’Europa è che a battersi per lei, sono soprattutto quelli che non ne fanno ancora parte.