Ogni anno decine di ragazzi girano il mondo e si guadagnano da vivere picchiandosi in un videogioco, ma senza mai dimenticare una stretta di mano. Abbiamo parlato con uno di loro.
C’è un mondo bellissimo di persone la fuori che si allena, si stringe la mano, si picchia, si ristringe la mano e continua così, torneo dopo torneo, in giro per il mondo, senza mai farsi un graffio, ma conservando dentro di sé la determinazione e la saggezza di chi le arti marziali le pratica sul serio.
Sono i campioni mondiali di Street Fighter, uno dei giochi più famosi di sempre, uno di quelli sui quali anni fa ci si giocava il prestigio in sala giochi, e che oggi portano un gruppo di ragazzi a girare il mondo torneo dopo torneo, mezza luna e pugno dopo mezza luna e pugno, spinti da una passione fortissimi e determinati a per vincere e sollevare coppe di fronte a centinaia di tifosi urlanti.
Alcuni di loro si incontreranno questo fine settimana a Roma, in occasione del torneo “ Road to Ultra” presso la storica sala giochi (sì, nel 2014 esistono ancora, e sono ancora luoghi bellissimi) ExtraBall per aggiudicarsi un premio di 1000 euro.
Ryan Hart è uno di loro, un ragazzo tranquillo, gentile, sorridente, nonché uno dei più forti giocatori di Street Fighter al mondo, con cui abbiamo parlato di duri allenamenti, della sua vita e di cosa vuol dire oggi fare uno sport legato ai videogiochi.
Ma non chiamatelo nerd.
Allora com’è picchiare (virtualmente) la gente per vivere?
«Hahaha, Be’ sapere che il tuo allenamento ti ha permesso di superare il tuo avversario è una bellissima sensazione. Detto questo, sono uno che apprezza la condivisione di un bello scontro, ci sono momenti in cui il mio avversario mi supera e io penso: “è stato fantastico!”. Ma comunque, senza un duro allenamento non sarei in grado di apprezzare l’abilità del mio avversario, quindi funziona in entrambi i sensi».
Quando hai capito che sarebbe diventato il tuo lavoro?
«A dire il vero, non l’ho mai realizzato, né accettato, è solo qualcosa che succede nella mia vita. Anche se faccio una carriera da professionista, continuo a lavorare e a mantenermi attivo in molti campi. Cerco di far si che questo rimanga, per quanto possibile, un hobby».
E quanto tempo ti occupa questo hobby?
«Come tempo? Alcune ore a settimana sono necessarie per rimanere in forma. In base ai miei impegni decido le ore di allenamento».
Quanto pensi che si somiglino il tuo allenamento e quello di un combattente reale?
«Molto, soprattutto in termini di allenamento mentale. Il modo in cui prepari lo scontro, fai ricerche sul tuo avversario, guardi i match che ha vinto, quelli che ha perso. Tutto è collegato. Al di là dei dettagli fisici, credo ci sia poca differenza».
E ti è mai capitato di essere particolarmente arrabbiato con un tuo avversario? Così tanto che magari, dopo un match avresti voluto quasi dargliele sul serio?
«Ogni avversario innesca dentro di te sentimenti differenti. Anche nella mia peggiore delle sconfitte, non ho mai voluto passare alle vie di fatto. Tuttavia ricordo questo tizio in finale che non volle stringermi la mano prima del match! Capisci? PRIMA? Avrei capito se fosse stato arrabbiato dopo una sconfitta, ma questo tizio non voleva stringermela prima del match. Mi sentii insultato, e quindi volevo veramente fargliela pagare e lo feci, battendolo 2 a 0 e alzandomi dalla sedia con aria del tipo “ecco ciò che ti meriti”.
Comunque il fatto che non avesse voluto stringermi la mano, denotava le sue debolezze, nessun giocatore forte ha questo approccio mentale».
E qual è l’approccio mentale di un giocatore forte?
«Un giocatore forte si allena, e l’allenamento ti rende sicuro. Quando sei sicuro stringersi la mano prima dell’incontro è niente, una semplice formalità che deve avvenire prima di iniziare. Non è qualcosa a cui devi dar peso. Non volerlo fare mostra che per te ha un valore o un senso, che è qualcosa che non vuoi fare a causa di ciò che significa o non significa.
Ci dev’essere rispetto prima di un match in cui la competizione è così alta. Il fatto che non abbia mostrato rispetto mostra la sua scarsa cultura in questo sport».
Quanti tornei fai all’anno?
«Non lo so, sono veramente tanti, e non li conto mai!»
Come scegli il gioco e il tuo personaggio preferito?
«I giochi si scelgono in base al feeling, mentre i personaggi sono scelti perché ti piacciono, per i loro punti di forza o la difficoltà nell’utilizzarli. A volte un personaggio mi piace meno perché è semplice da utilizzare. Di solito non mi piace adattarmi o fare come tutti gli altri».
Cosa ne pensano la tua famiglia e le persone intorno a te di questo hobby?
«La mia famiglia mi incoraggia molto e sono sempre molto felici di ogni mia vittoria. Pensano che dovrei farci più soldi, vista la mia esperienza e la mia posizione, ma è difficile spiegare loro che la FGC (Fighting Game Community, ovvero la tutto il movimento che ruota attorno ai giochi di combattimento elettronici) è molto povera rispetto ad altri leghe di videogiochi molto più strutturate».
Pensi che l’e-sport diventerà mai grande come lo sport tradizionale, o persino più grande?
«Gli e-sport sì, ma i giochi di combattimento, non saprei».
Come mai? Sono probabilmente i più spettacolari da vedere.
«Altri e-sport hanno già una struttura adeguata per avere un ente, una lega e tutto ciò che serve per lavorare bene e diventare uno sport riconosciuto. La Fighting Game Community è favolosa, e sono felice di farne parte, ma c’è molta meno esperienza da quel punto di vista, e c’è ancora molto da fare prima di arrivare al giusto livello. Ovviamente mi piacerebbe molto essere smentito.
Francamente, gli eventi del settore non vedono i tornei di Street Fighter come qualcosa che faccia parte degli e-sport. Di solito è qualcosa di secondario, che non occupa mai il palco centrare, ma sempre in spazi minori, mentre altrove succedono le cose importante».
Un vero peccato, Street Fighter fa parte della storia dei videogiochi.
«Il più grande spazio dedicato a SF è ad un evento chiamato Dreamhack, in Svezia, che ovviamente è uno dei miei eventi preferiti dell’anno. Questo comunque non impedisce che Street Fighter sia sempre il primo gioco cancellato se ci sono problemi di tempo.
Quindi, sì, decisamente ci vorrà del tempo prima di venir riconosciuti, e bisognerebbe che qualche nome grosso sostenesse il gioco».
Qualcuno ti ha mai preso in giro per ciò che fai?
«Nessuno mi prende in giro per il mio hobby. Sono stato a scuola, al college, ho fatto i miei studi, ho lavorato duro con molte grosse compagnie. La mia vita è piena di “capsule di conoscenza” che scorrono lungo il tempo. Ho avuto un sacco di altri hobby oltre ai videogiochi. Le arti marziali, la cucina, il jazz, l’insegnamento, la breakdance, tanto per dirne qualcuno.
Le uniche persone che hanno bisogno di insultare la tua bravura nei videogiochi sono persone che non hanno passioni. È molto più facile perdersi nel disaccordo e nella negazione della vita di qualcun altro che affrontare e accettare la realtà della propria.
A volte le persone devono essere sincere con se stesse per capire cosa è giusto per la loro vita, e spesso non è ciò che può dire un profano, ma qualcosa che viene da dentro. Come il tuo stomaco ti dice quando mangiare, il resto del tuo corpo può dirti altre cose.
Quando fai qualcosa di nuovo non dovresti farlo solo perché speri che non verrai mai messo in discussione per ciò che pensi o credi. Certo, l’accettazione è bella, ma che senso ha se non accetti te stesso?»
Dalle tue parole si sente che hai fatto arti marziali, pensi che ti abbiano in qualche modo portato al mondo dei videogiochi di combattimento?
«Credo che siano aspetti molto legati. Mi piace tenermi attivo e fare un sacco di cose, i giochi di combattimento sono un riflesso della mia attitudine».
Pensi che col tempo l’idea del “nerd” stia lentamente cambiando in qualcosa di più realistico e moderno? Qualcosa di più legato a una persona comunque che semplicemente ama i videogiochi, piuttosto che il classico asociale? Di solito se si pensa a qualcuno molto bravo nei videogiochi si immagina una persona diversa da te.
«Ho notato che quando le persone usano la parola “nerd” in termini dispregiativi, quelle persone sono spesso molto piatte. Non ho mai sentito persone molto profonde usarla per descrivere qualcuno. Non succede perché più sei una persona profonda, più sei aperta alla libertà, il che vuol dire che non vuoi dare etichette alle persone, perché sarebbero un limite in cui sei tu a decidere cosa possono o non possono essere.
Più le persone sono vuote, più hanno bisogno di etichette, perché ciò rende il mondo più piccolo e facile da capire. Forse a pensarla così mi farò dei nemici, ma parlo per esperienza, e anche qua non vedo l’ora di essere smentito».