Agire o non agire. Questo è il dilemma più grande per la Banca centrale europea. Il prossimo meeting della Bce si preannuncia di fuoco. La deflazione è lo spettro che volteggia sopra l’area euro. I Paesi periferici sono la possibile preda. La Bce è il guardiano che sta tentando di evitare il massacro. Le armi a disposizione sono tante, ma è possibile che Mario Draghi voglia attendere ancora prima di sferrare il colpo. Più che altro, vuole capire che arma usare per combattere contro il calo generalizzato dei prezzi al consumo nella periferia dell’eurozona. E non solo, dato che il credit crunch morde ancora, la frammentazione finanziaria si sta riducendo ma non troppo e la debolezza della domanda interna è significativa.
Lo scenario di base è che l’eurozona, specie nella periferia, sta sperimentando un prolungato periodo di bassa inflazione. Ciò significa che i prezzi al consumo stanno calando. Sintomo della difficoltà che hanno i Paesi meridionali dell’area euro ad agganciare il treno della ripresa tramite l’attuale politica monetaria, unita alla tiepida ripresa che si è affacciata sull’eurozona. Se il cuore trotta, complice la domanda esterna, la periferia non fa altro che viaggiare a scartamento ridotto, con una velocità quasi dimezzata rispetto alla Germania. È proprio per questo che la Banca centrale europea sta riflettendo su quale sia la soluzione migliore per bilanciare gli squilibri esistenti. Prima di lanciare una qualunque azione, che si tratti di un sforbiciata ai tassi d’interesse o dell’inizio di una politica monetaria espansiva per sostenere le imprese della zona euro, si deve guardare al quali sono le prospettive macroeconomiche.
Nonostante ci siano diverse voci autorevoli, come quella di Société Générale, che vedono un ulteriore allentamento del costo del denaro per fronteggiare i venti di deflazione, bisogna guardare nel lungo periodo. E per farlo in modo omnicomprensivo, bisogna attendere le nuove previsioni sull’inflazione che arriveranno dall’Eurotower questo giovedì. L’obiettivo della Bce è un tasso d’inflazione intorno ai due punti percentuali. E chiaramente l’attuale livello, 0,8% per febbraio su base tendenziale, è molto al di sotto le aspettative. È probabile, ricorda Bank of America-Merrill Lynch, che la Bce riveda al rialzo le proprie stime future. Vale a dire tasso d’inflazione dell’1,4% a fine 2015 e dell’1,5% a fine 2016. Un livello più accettabile di quello odierno. Diversa la visione di Nordea, che vede la Bce stimare un’inflazione compresa fra l’1,6% e l’1,7% a fine 2016. Se così fosse, per Mario Draghi sarebbe difficile giustificare un ulteriore taglio del tasso d’interesse principale, soprattutto di fronte alla Germania.
Data l’incertezza sulle previsioni da qui al 2016, è quindi facile che la Bce aspetti ancora prima di agire. Così pensa sempre Nordea. Se è vero che esiste uno spauracchio chiamato deflazione che viaggia nell’eurozona periferica – Grecia, Portogallo, Spagna e Italia la stanno sperimentando – è altrettanto vero che questo genere di fenomeno economico è destinato a finire entro la conclusione dell’estate. «Al più tardi nel prossimo settembre ci sarà un rimbalzo dei prezzi nei Paesi che stanno registrando una contrazione del livello generale dei prezzi al consumo», scrive Crédit Agricole. Ancora una volta, non ci sono (almeno in teoria) giustificazioni per un mutamento della situazione attuale.
Il problema della Bce è che, insieme al pericolo deflazione, ci sono anche altre tre questioni. Da un lato troviamo la debolezza della domanda interna. I consumi privati rimarranno fiacchi per buona parte del 2014, anche nel centro dell’eurozona, e le recenti tensioni nei Paesi emergenti, che potrebbero minare alla domanda esterna, non hanno aiutato. Dall’altro troviamo invece il credit crunch. Le banche, impegnate ancora in un lungo processo di deleveraging, si stanno attrezzando per la conclusione dell’Asset quality review (Aqr), la due diligence della Bce che finirà a novembre 2014 e che sarà unita a stress test sulla solidità patrimoniale. Questo significa, in modo verosimile, che serviranno delle ricapitalizzazioni. Come farle? Saranno sufficienti? Sarà ripresa la normale attività bancaria dopo questo esercizio? Domande che, per ora, non hanno risposta. Infine, non va dimenticato che la situazione in cui agisce la Bce è singolare. Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria è ancora rotto, sebbene sia calato il rischio di convertibilità dell’euro, che aveva amplificato questo fenomeno. Ridurre le divergenze tra centro e periferia non è semplice e finora le attuali decisioni, su tutte la riduzione dei tassi d’interesse della Bce, non hanno funzionato. Serve qualcosa di più.
La via che potrebbe prendere la Bce è quella di un’estensione delle attuali operazioni di mercato aperto. Traduzione: le operazioni trimestrali di rifinanziamento principale (Main refinancing operation, o Mro) a tasso fisso potrebbero essere estese fino a fine 2016. In questo modo, le banche dell’eurozona potrebbero aver la certezza di un canale di liquidità aperto fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata anche sotto il profilo dei prezzi al consumo e dopo le eventuali ricapitalizzazioni post-Aqr. In alternativa, c’è anche l’artiglieria più pesante: un’operazione di rifinanziamento a lungo termine (long-term refinancing operation, o Ltro) della durata di un anno, giusto per coprire il periodo di debolezza dell’area euro. O ancora, è possibile uno schema simile a quello usato dalla Bank of England per sostenere l’economia nel periodo dopo al collasso di Lehman Brothers. «Il Funding for lending scheme (Fls, ndr) è uno degli strumenti che possiamo utilizzare», ha detto Draghi parlando di fronte al Parlamento europeo. In sostanza, un mini-Quantitative easing (Qe) capace di riattivare i canali del credito bancario attraverso finanziamenti mirati alle piccole e medie imprese.
Nel caso lo scenario peggiori e la Bce riconosca che l’eurozona è entrata in deflazione, c’è spazio quindi per una versione europea del Quantitative easing statunitense. Il dibattito intorno a questa misura di politica monetaria non convenzionale è appena iniziato, ma son già diverse le banche che hanno prospettato questa via. Tra le altre, proprio BofA-Merrill Lynch e Société Générale sono state fra le prime, insieme a BNP Paribas. La visione più specifica è quella di PIMCO, il più grande fondo obbligazionario mondiale. Andrew Bosomworth, numero uno della gestione del portafoglio europeo di PIMCO, ha spiegato che ritiene probabile il lancio di un Qe da parte della Bce. Per Bosomworth le classi di asset oggetto di questa operazione sarebbero principalmente tre: bond governativi, crediti bancari, covered bond. Il tutto nonostante nelle scorse settimane Benoît Cœuré, membro dell’executive board della Bce, abbia esplicitamente detto che «la Bce non ha bisogno di strumenti spettacolari come il Qe». Inoltre, come giustificare l’acquisto di bond governativi tramite il Qe? Improbabile che la Germania, ma non solo, appoggino quest’opzione. È altrettanto vero che però nella faretra dell’Eurotower ci sono ancora diverse frecce. Taglio dei tassi d’interesse, tassi negativi sui depositi, varie operazioni di mercato aperto, più il Qe. Ancora una volta, saranno i dati a specificare quando finirà la debolezza dell’area euro e, di conseguenza, quale mossa sarà più corretta. Il timore è che la debolezza sia più lunga del previsto, lasciando meno spazio di manovra a Francoforte.