Bisogna provare a parlare della Grande Bellezza, dopo la vittoria, dimenticandosi della statuetta, dell’Oscar, delle fanfare e dei pennacchi, del coro conformista e pregiudizialmente favorevole che adesso inevitabilmente si leva con un immancabile retrogusto zuccherino e posticcio.
Bisogna andarsi a rileggere ora – invece – le cose terribili che vennero scritte quando il film uscì, le piccole miserie dei grandi critici del piffero, la micragneria intellettuale e l’incapacità di capire il punto, che all’epoca sfavillarono in ogni dove, bisogna ripercorrere il florilegio di stroncature più o meno cipigliose e nasopuzziste che il film di Sorrentino incassò quando era ancora nelle sale, e quando non aveva ancora l’aura sacrale di un Oscar stampigliato come una medaglia sulla locandina.
L’elemento di rottura che non venne digerito all’epoca, nel conformismo uguale e contrario al senso comune attuale, di tutti quelli che storcevano il naso – infatti – è lo stesso che oggi viene annacquato dal coro degli apologeti: non è una riabilitazione, dunque, quella che sta vivendo Sorrentino, ma una doppia rimozione che circonda il suo film. Si diceva infatti che La Grande Bellezza era troppo caricaturale, troppo manierista, troppo felliniano, troppo ridondante, troppo cinico, per negare il fatto che si trattasse di un j’accuse sornione e intelligente, calligraficamente e cinematograficamente perfetto, ma concettualmente indigesto perché caustico, disperato, feroce.
La Grande Bellezza era, ed è, una fotografia perfetta, un ritratto sontuoso della grande decadenza italiana, bello proprio perché eccessivo come solo il grande cinema sa essere, come eccessivi sono Martin Scorsese, Spike Lee, Baz Lhurmann, Lars Von Trier. È l’eccesso, infatti, l’unico modo per raccontare un Paese che ha perso il senso di sé, che ha abbassato in maniera drammatica i parametri del suo gusto, il livello della sua cultura, che visto fondere senza rimedio – come diceva Gramsci – le sue classi dirigenti. Roberto d’Agostino si affanna dire che La Grande Bellezza non racconta Roma, e non si accorge che racconta l’Italia. Sorrentino ci ha regalato una galleria di maschere e di orrori che sono la sintesi di uno zeitgeist piuttosto che una rassegna di nuovi mostri.
Adesso fregatevene di quelli che si genufletteranno gridando al capolavoro, con lo stesso zelo idiotistico di quando storcevano il naso, domani rivedetevi la storia di Jep Gambardella pensando non al fatto che si porta dentro il roboante cafonalismo di un’Italia che abbiamo già visto, ma piuttosto che distilla una silenziosa disperazione che non abbiamo ancora messo bene a fuoco. È per questo che La Grande Bellezza non è solo un bel film, ma continua ad essere un film utile.