A distanza di mesi dal primo annuncio, ancora a cura del governo di Enrico Letta, le privatizzazioni dell’Italia cercano di entrare nel vivo. Sul buon esito dell’intera operazione il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si è sempre detto ottimista, e nello scorso weekend ha rilanciato: «È in preparazione un nuovo piano di privatizzazioni». Non solo Poste, o Eni, o Enav, o ancora Fincantieri. No, ci sarà di più all’interno del pacchetto che sarà probabilmente pronto per appena dopo la presentazione del Documento di economia e finanza (Def). Vale a dire già la prossima settimana. L’accelerazione è d’obbligo. Il tempo è tiranno verso l’Italia. Dopo tante promesse, è l’ora dei fatti. Ma resta l’incognita sul reale impatto sull’indebitamento generale, probabilmente meno del previsto.
L’obiettivo è sempre il solito: raccogliere circa 10 miliardi di euro, utili alla riduzione del debito pubblico italiano, oltre 2.000 miliardi. Il Tesoro ne ha bisogno, deve per forza trovare delle risorse al fine di iniziare un processo di riduzione dell’indebitamento. Le condizioni di mercato sono favorevoli, dato che il tasso di rendimento dei titoli di Stato, di qualunque maturity, è ai minimi dall’inizio della crisi dell’eurozona. Allo stesso tempo, i grandi fondi d’investimento statunitensi stanno ricominciando a guardare con interesse alla periferia dell’area euro, dove Spagna e Italia hanno ricominciato a essere appetibili. «Ci sono opportunità molto buone sia nel mercato spagnolo sia nel mercato italiano, così come in quello portoghese», ha scritto il fondo statunitense BlackRock in una nota ai clienti istituzionali.
Per le Poste Italiane si pensa a una cessione del 30-40% delle quote. In linea con quanto ipotizzato già dal governo Letta. Gli investitori istituzionali sono i più interessati, per un possibile incasso compreso fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Allo stesso modo, si pensa a cedere il 49% dell’Ente nazionale per l’assistenza al volo (Enav) per ricavarci circa un miliardo di euro. E poi ci sono le altre partecipate, dal colosso energetico Eni a STMicroelectronics, passando per Fincantieri e la Cassa depositi e prestiti. Totale dei possibili incassi da qui alla fine dell’anno, circa 10 miliardi di euro. Stessi numeri dell’ex inquilino di via XX Settembre, Fabrizio Saccomanni. Sul tavolo di Padoan c’è la dismissione di qualunque quota, comprese le partecipazioni in Ferrovie dello Stato, e quindi anche di Trenitalia e Grandi stazioni.
Come spiega a Linkiesta una fonte del ministero dell’Economia, «i problemi non sono pochi». Fra tutti, come collocare le quote delle società partecipate sul mercato senza perderci. «Siamo fiduciosi, l’interesse nei confronti dell’Italia è in aumento costante e lo si vede anche dall’appeal dei titoli di Stato», dice il funzionario del Tesoro. Una volta presentato il pacchetto finale di dismissioni, continua la fonte, «entro tre mesi saranno completate le prime cessioni, forse anche prima». I primi contatti con possibili compratori ci sono già stati, ma tutto è ancora riservato. È chiaro però che manifestazioni di interesse sono arrivate da «grandi investitori istituzionali internazionali», sottolinea il funzionario. I nomi, tuttavia, si conosceranno solamente dopo la presentazione del pacchetto finale.
Tutta l’operazione è subordinata a due problemi di fondo. Il primo è rappresentato dalla tempistica. Come aveva già evidenziato la banca britannica Barclays lo scorso 23 novembre, «la buona riuscita dell’ambizioso programma di privatizzazioni dell’Italia dipende molto dai tempi delle dismissioni». Sono passati quattro mesi e ancora tutto è in alto mare. Un buon metro di paragone, nell’eurozona, sono le privatizzazioni compiute dalla Grecia negli scorsi anni, dopo la nascita dell’Hellenic Republic asset development fund (Hradf). La prima stima di ricavi era di 50 miliardi di euro, ma dopo un anno la cifra è stata dimezzata. Dopo due anni dal lancio dell’Hradf, il ministero ellenico delle Finanze ha ipotizzato entrate complessive per 15 miliardi di euro, a fronte di una Commissione Ue che invece ha stimato solo 8,7 miliardi di incassi. Un mezzo fallimento, condizionato soprattutto dalla tempistica e dalla burocrazia. Troppo lunga la prima, troppo elevata la seconda.
L’altra questione di fondo è l’impatto che potranno avere gli incassi delle privatizzazioni sul debito pubblico. Anche prendendo per buona la stima del governo Letta, cioè circa 10 miliardi di euro, non si tratta che di una goccia nell’oceano di debito pubblico che deve portarsi dietro l’Italia ogni volta che scende sui mercati obbligazionari. Nella migliore delle ipotesi viste dagli occhi degli analisti delle banche d’investimento potranno essere ricavati circa 17 miliardi di euro da qui al 2018. Così pensa Barclays, che ha la visione più ottimistica fra i grandi istituti di credito. Anche in quel caso, tuttavia, la cifra non basterebbe a ridurre il debito pubblico monstre dell’Italia. Anzi, secondo Barclays il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo (Pil) resterà a quota 130% da qui al 2030. Troppo bassa la crescita, compresa fra lo 0,8% e l’1,2% del 2016, per provocare uno shock positivo in grado di far declinare l’indebitamento generale. Anzi, secondo le stime della banca britannica, lo stock del debito italiano dovrebbe aumentare di 14 miliardi di euro nell’arco del triennio 2014-2016: 7 miliardi nell’anno in corso, di 5 miliardi il prossimo e di 2 miliardi nel 2016. Il risultato è che saranno vanificati gli sforzi sulle privatizzazioni iniziate da Saccomanni e continuate da Padoan.