In Italia si fa presto a spararla: l’Ue “approva” la manovra delineata da Matteo Renzi al consiglio di ministri, si è letto da più parti in queste ore. Tutto colpa di una dichiarazione – ovviamente molto equilibrata e prudente nello stile comunitario – diffusa dal portavoce del commissario agli affari economici Olli Rehn. Certo, figurano vari «we welcome», ci compiacciamo, relativo a questioni come «l’intenzione del governo di semplificare il quadro istituzionale e il processo decisionale», con riferimento ai vari livelli dello Stato, così come «l’intenzione di ridurre il cuneo fiscale soprattutto attraverso risparmi identificati dalla spending review». E, infine, appaiono «appropriate» le misure del decreto legge sull’occupazione. Quanto basta per vedere un tripudio festoso su vari siti inneggianti alla presunta «approvazione» di Bruxelles.
In realtà la Commissione, e soprattutto i servizi di Rehn, non festeggiano affatto. Certo, le riforme delineate da Renzi vanno nella direzione tracciata dalle stesse raccomandazioni Ue dello scorso anno e questo è un bene (anche se Bruxelles avverte di essere «interessata» a vedere «come saranno delineati i numeri e i passi annunciati» dal governo soprattutto sul fronte della riforma del mercato del lavoro). A preoccupare moltissimo la Commissione, e lo si capisce già dalle dichiarazioni del portavoce, sono però le coperture e l’insufficiente attenzione (per non dire indifferenza) alla necessità di ridurre il debito. Punto su cui ancora pochi giorni fa ha richiamato Rehn, ricordando che già a novembre la commissione ha chiesto correzioni sul fronte del deficit strutturale (al netto di fattori ciclici e una tantum) dell’ordine dello 0,5% del pil (circa 7,5 miliardi di euro) per riportare l’elevatissimo debito pubblico sulla via della discesa. Il portavoce nella sua dichiarazione lo ha fatto capire. «Ricordiamo – ha detto – la necessità che l’Italia rispetti i suoi impegni nel quadro del Patto di stabilità e crescita, specialmente visto il debito elevatissimo. L’Italia si trova nel braccio preventivo del Patto (per quei paesi, come l’Italia, che sono fuori procedura per deficit eccessivo, n.d.r.), il che vuol dire che deve concentrarsi sul raggiungimento dell’obiettivo di medio termine di un bilancio in pareggio in termini strutturali (cui l’Italia puntava finora nel 2015-16 n.d.r.) e, legato a questo, la nuova regola del debito» (che dal 2016 richiederà all’Italia una riduzione di un ventesimo l’anno della parte del debito pubblico eccedenti il 60% del pil, dunque per noi oltre il 70%).
Fin qui la parte ufficiale. Basta però fare due chiacchiere nei corridoi del Palazzo Berlaymont per registrare la palpabile preoccupazione, per non dire irritazione, per i proclami di Renzi e anche del suo neoministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Soprattutto, a Bruxelles ha fatto saltare tutti sulla sedia l’annuncio del premier di voler comunque usare un presunto «margine» che separa il deficit nominale previsto per il 2014 (2,6% del pil secondo la Commissione) dal tetto del Patto, il 3% del pil. Come dire: vabbé, finché non sforiamo quel tetto, tutto bene, abbiamo lo 0,4% del pil di margine (circa 6 miliardi di euro). Così sembra ragionare Renzi, e questo a Bruxelles proprio non va giù, oltretutto dopo che Rehn ha ribadito che l’Italia – proprio per il debito – non può giovarsi neppure della clausola che concede a chi è fuori procedura per deficit eccessivo di rinviare l’obiettivo di medio termine per investimenti cofinanziati dall’Ue. «Pronosticare un aumento del deficit nominale – spiegano fonti comunitarie – vuol dire aumentare di fatto anche il deficit strutturale, e questo va nella direzione esattamente contraria a quanto si chiede all’Italia». La quale deve prepararsi già ora alla consistente riduzione del debito pubblico, di qui le richieste della Commissione di aumentare gli sforzi di riduzione ulteriore del disavanzo strutturale.
I servizi di Rehn non sanno più come fare capire all’Italia che i famosi margini proprio non ci sono, anche se il paese fa le riforme. Del resto a Bruxelles non convince più di tanto neppure il ragionamento lanciato da Padoan lunedì nel corso del suo primo eurogruppo da ministro dell’Economia – e cioè che le riforme portano effetti positivi in due-tre anni, mentre all’inizio possono avere un effetto negativo sui conti pubblici e dunque, in sostanza, si dovrebbe chiudere un occhio nel breve termine, concentrando l’analisi «a medio-lungo termine» dei piani italiani. Il problema è che per Bruxelles tutto è assolutamente vago sul fronte delle coperture, su quali possano essere concretamente gli effetti positivi di cui parla Padoan nel giro di due-tre anni in termini di pil (che è il numeratore del rapporto con il deficit e con il debito). Come più che scettica la Commissione è sull’idea di poter concedere un «rinvio» sul fronte del criterio del debito – «non è come per il deficit, per cui la cosa è prevista in certi casi», avvertono a Bruxelles.
Per sperare di trovare comprensione a Bruxelles, l’Italia dovrà dunque preparare un piano nazionale di riforma e un programma di stabilità in tempo per la presentazione all’Ue prevista per aprile nell’ambito del Semestre europeo. Dalla loro analisi seguiranno poi le raccomandazioni paese della Commissione. E attenzione: la nuova governance economica Ue prevede anche per i paesi fuori procedura per deficit eccessivo la possibilità di raccomandazione aggiuntive e persino di sanzioni, soprattutto se non si rispetta l’obbligo di riduzione del debito pubblico. Renzi è avvisato, a meno che non si faccia fuorviare dai titoli che inneggiano alla presunta «approvazione» da parte di Bruxelles.