Lusso, che succede quando ci comprano

I marchi finiti a francesi e asiatici

Le notizie di aziende italiane del lusso che finiscono in mani straniere sono sempre più frequenti e i toni che accompagnano le cronache giornalistiche sono in genere allarmati. Anche se a ben vedere, salvo qualche eccezione, si scopre che i nuovi padroni tendono a valorizzare le società acquisite, riuscendo spesso a valorizzare al meglio l’italianità dei marchi.

Fonte: Pambianco. Elaborazione: Linkiesta

Separare gestione e proprietà

Secondo Stefania Saviolo, docente di Strategia e Imprenditorialità alla Sda Bocconi, la questione se per l’azienda sia meglio un proprietario italiano o estero non è ben posta, anche perché «spesso non c’è alternativa alla vendita a stranieri considerato che di frequente emerge un problema di successione e nessun italiano si fa avanti». Questo perché «spesso i nostri imprenditori, a differenza ad esempio dei francesi, si concentrano sul prodotto e non anche degli aspetti finanziari». Anche se, per fortuna, non mancano le eccezioni, «come Renzo Rosso che ha acquisito Marni». Secondo Saviolo, a fare davvero la differenza è la capacità di separare il ruolo di manager da quello dell’imprenditore, pur puntando poi a un’integrazione ai fini dell’interesse aziendale. «Nelle aziende acquisite bisogna trovare chiporta avanti una visione imprenditoriale e creativa, non solo manageriale, mentre nelle aziende italiane accade spesso il contrario», spiega.

Vincenti e perdenti

Tornando al tema iniziale, Saviolo ricorda che le acquisizioni estere sono state generalmente positive, anche se non manca qualche insuccesso. Armando Branchini, vice presidente di Altagamma, fa il punto su alcuni brand di peso finiti negli anni in mani estere. «Bottega Veneta è un esempio emblematico: un’azienda che nel 2001 fatturava l’equivalente di 26 milioni di euro e nel 2012 è arrivata a un miliardo. Nello stesso periodo i dipendenti sono passati da 250 a 2.300, con la produzione interamente in Italia». Stesso discorso per Gucci, finita nel 1999 a Kering: «In questi quattordici anni l’azienda ha triplicato gli addetti, che oggi sono 9.300, mentre il fatturato è cresciuto di sei volte a quota 2,6 miliardi». Molto bene sono andate le cose anche per Bulgari e Fendi, entrambe finite nel gruppo Lvmh, mentre lo stesso non può dirsi per Ferré, acquisita nel 2011 da Paris Group. «L’azienda di Dubai ha disperso un patrimonio importante e oggi l’azienda non produce più», sottolinea Branchini. Il quale, alla luce di queste esperienze, deduce che «non conta la nazionalità del proprietario, ma la qualità della gestione».

L’esperto ricorda che già Marx un secolo e mezzo fa sottolineava che il capitale è internazionale, per cui va a cercare le migliori opportunità di reddito. «Un concetto che in Italia fatichiamo a comprendere», sottolinea. «Non dimentichiamo quanto successo con i famosi “patrioti” chiamati a salvare l’italianità di Alitalia nel 2008…».

In un report curato da David Pambianco, e presentato in un convegno di qualche mese fa dal titolo emblematico “Made in Italy senza Italy?”, la società di consulenza sul mondo della moda ha messo in luce i vantaggi per le aziende italiane che entrano a far parte di gruppi più grandi, dalla forza del network internazionale alle maggiori risorse disponibili per promuovere il brand. Pur ricordando che la cessione sposta il “pallino” della gestione del marchio e degli investimenti in mani straniera, così come gli utili.

Mentre la crescita della produzione in Italia porta con sé benefici allo sviluppo dei distretti produttivi (in termini di fatturato e addetti) e mantenimento del nostro “savoir faire” artigianale e industriale. Anche se una crescita solo nel territorio nazionale può mostrare la corda a fronte di una possibile evoluzione nei gusti dei consumatori internazionali con attenzione crescente verso il brand, più che il Paese di provenienza. Un altro rischio è che alle aziende italiane resti una quota minima del fatturato generato sul prodotto di lusso (catena del valore). Quanto basta per spingere le aziende italiane intenzionate a crescere, e con le spalle abbastanza robuste per farlo, a guardare anche alle opportunità oltreconfine.

Fonte: Pambianco. Elaborazione Linkiesta

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