Una volta Richard Burton dichiarò al New York Times che Elizabeth Taylor conosceva una sola parola di italiano, “Bulgari”. Per Audrey Hepburn quella parola avrebbe potuto essere “Ferragamo”. Ma quand’è che l’Italia cominciò ad essere identificata con il glamour e la moda? Quand’è che la patria di santi, poeti e navigatori divenne anche il Paese di sarti, stilisti e designer?
Una risposta la si potrebbe ricavare visitando l’esposizione che sta per debuttare (5 aprile-27 luglio) a Londra, al Victoria and Albert Museum, “il più grande museo del mondo di arte e design”, come da sito istituzionale. Il titolo della mostra individua un periodo storico ben preciso: “The Glamour of Italian Fashion 1945 – 2014”. Il secondo Dopoguerra, la ricostruzione, il piano Marshall, il mercato unico, in una parola il boom. Il Made in Italy nasce con il boom, è sostanza e simbolo del miracolo economico. Prendete la tradizione italiana, le botteghe artigianali, la lavorazione del cuoio e dei tessuti. Aggiungete l’impatto degli aiuti americani. Unite il bisogno profondo di possedere ciò che è superfluo, dopo anni di privazioni materiali. Shakerate ed otterrete il lusso Made in Italy.
I capitali riprendono a circolare, il mercato offre possibilità mai viste e gli artigiani si fanno imprenditori. L’Italia si impone esportando il Bello, spesso a prezzi più competitivi della concorrenza parigina. Gli anni Cinquanta a Firenze non sono solo quelli di Giorgio la Pira, “il sindaco santo” così caro a Matteo Renzi, ma quelli di Giovanni Battista Giorgini, che nel 1951 organizza a Villa Torrigiani la prima sfilata di alta moda italiana riconosciuta a livello internazionale, a cui partecipano Emilio Pucci, Carosa, Simonetta, le sorelle Fontana, Emilio Schuberth. Non ci sono solo abiti di lusso, ma pigiami, biancheria intima, costumi da bagno. L’anno successivo, l’esibizione si sposta nella Sala Bianca di Palazzo Pitti.
Il mondo della moda diventa una struttura portante dell’Italia del Boom. E con il Boom non si impone tanto un modello economico, quanto uno stile e una reputazione, che restano indissolubilmente legati al nostro Paese (di qui la scelta di un arco temporale che arriva fino al 2014). I vestiti in mostra “sottolineano la qualità eccezionale delle tecniche, dei materiali e dell’expertise per le quali l’Italia è diventata famosa in tutto il mondo”. Perché, banale ma vero, aveva ragione Elizabeth Taylor. Le parole italiane più note restano Bulgari, Armani, Gucci, Prada, e poco importa se i marchi finiscono, uno dopo l’altro, in grandi gruppi di proprietà straniera, che sono in grado di “fare sistema”, come si è soliti dire.
Sono proprio Liz Taylor e Audrey Hepburn a diventare le più grandi ambasciatrici dell’alta moda e del lusso italico, quando Cinecittà si trasforma per un paio di decenni nella Hollywood sul Tevere. Il jet-set internazionale, le cui fila si ingrossano, in tempi di espansione economica, vuole vestiti su misura e scarpe su misura, pretende completi fatti a mano, come quelli indossati da Marcello Mastroianni nella Dolce Vita, impara a distinguere la tradizione napoletana da quella romana e così via (Jean Christoph Babin, amministratore delegato di Bulgari, sostiene che il modo di vestire del centro-sud è influenzato dalla cultura papale e da quella imperiale, oltre che dalla solarità mediterranea, mentre il Nord, tradizionalmente vicino alla civiltà austriaca, è più minimalista ed austero nell’estetica, “la sobrietà di Armani contro l’esuberanza di Dolce e Gabbana”, dice).
Anche se il boom si esaurisce, il miracolo torna a cifre ordinarie, i conflitti sociali divampano e l’economia si avvita in una spirale fatta di inflazione e debito pubblico, fashion e lusso percorrono un’altra strada, esportano, fatturano, sono l’emblema del successo. Milano, ancor prima degli anni del craxismo, diventa la nuova capitale della moda, anche perché la moda riesce a “fare sistema” con il mondo dei media e quello della pubblicità. Il marchio Made in Italy, come paradigma di stile e qualità, si estende ad altri campi, cibo, turismo, design. Richard Gere veste Armani in American Gigolo e tutte le donne sognano quell’uomo che veste Armani.
Gli anni Ottanta, come da manuale di storia, sono quelli dell’edonismo, del lusso esibito, rigorosamente Made in Italy. Gli anni Novanta sono quelli della globalizzazione, cadono le frontiere, si aprono nuovi mondi e nuovi mercati. Diventa essenziale cogliere l’attimo, come nel secondo Dopoguerra. Quelle che erano nate spesso come aziende di famiglia diventano marchi mondiali. Che si tratti di vestiti, mobili, interni d’albergo, quello che conta è il brand, sinonimo di stile e qualità. La mostra sottolinea l’importanza dei designer, che rafforzano la fama dell’Italia come tastemaker globale (“Nel Bel Paese, più che in ogni altra area geografica del pianeta, il sistema della moda ha coltivato il culto del designer”, sostiene la curatrice Sonnet Stanfill). Una reputazione uscita intatta dagli anni della recessione, dell’Italia “grande malato d’Europa”, dello stallo politico e imprenditoriale. Il gusto italiano incrocia la domanda dei nuovi consumatori, nei Brics e nelle altre tigri economiche mondiali, il lusso è uno status symbol e uno stile di vita, da coltivare, magari, comodamente sdraiati sui letti e sui divani dell’Armani Hotel di Dubai.