Lo strumento che doveva essere il fulcro della prossima eurozona, l’unione bancaria, è stato depotenziato dai suoi stessi creatori. A forza di compromessi negoziali, uno degli ordigni più potenti in dotazione all’area euro è stato quasi disinnescato. È stata trovata una quadra sul Single resolution mechanism (Srm), il meccanismo di risoluzione bancaria, che accontenta tutti – dal Parlamento Ue ai singoli Stati membri – ma che già oggi risulta essere troppo bizantina. L’Unione bancaria europea non risolverà i dilemmi che affliggono la zona euro, e alla meglio non farà più danni di quelli che ci sono fin da oggi. E si può già immaginare quale sarà il responso degli investitori: chiederanno di più.
La frustrazione di Mario Draghi, nonostante le parole di elogio dopo l’accordo fra Consiglio Ue, Parlamento Ue e Commissione, non deve essere poca. Una volta messa in cantiere l’unione bancaria, ha dovuto poi fare i conti con la realpolitik. In altre parole, con le ingerenze e le pressioni dei singoli Paesi membri dell’eurozona. Facile comprendere il motivo. Il Single supervisory mechanism (Ssm) rappresenta la più grande innovazione finanziaria dall’introduzione dell’euro. La vigilanza bancaria centralizzata punta infatti ad armonizzare le singole authority nazionali. Quelle, per intenderci, che non hanno visto tante cose negli anni passati. Vale la pena ricordare i casi, ai limiti del grottesco da un punto di vista di vigilanza, di ABN-Amro, o di Fortis, o ancora di Monte dei Paschi di Siena. Per porre fine a quel triste balletto di nomine politiche nei cda, di occhi chiusi con la scusa della ragion di Stato, di baci e abbracci fra regolati e regolatori, c’è l’unione bancaria. O meglio, c’era.
Occorre specificare che il Ssm è vero che è la più grande innovazione finanziaria dalla nascita dell’euro, ma che lo è solo in teoria. Sia il Ssm sia il Single resolution mechanism hanno subito un trattamento di ridimensionamento che alla fine non farà altro che procrastinare la fine dei problemi che affliggono le banche dell’area euro. Il più rilevante è il circolo vizioso fra banche e nazioni. Più gli Stati hanno avuto difficoltà a piazzare i loro bond sul mercato a seguito del divampare della crisi dell’euro, più le banche li hanno sostenuti, arricchendo i bilanci di obbligazioni sovrane e riducendo la capacità di finanziamento a imprese e famiglie.
Sono plurimi i motivi per ritenere difficile che, nonostante le buone intenzioni della Bce, l’intera struttura è stata depotenziata de facto fin dalla sua nascita. In primis perché le tempistiche sono così dilatate che, prima che tutto l’impianto entri in funzione a pieno regime, bisognerà attendere i prossimi due anni. Ma se si vuol rompere l’abbraccio mortale fra banche e Stati, bisogna agire ora. Allo stesso tempo, come pretendere una totale cessione di sovranità dalle authority nazionali a quella centralizzata senza avere nulla in campo? È improbabile – e perfino troppo ottimistico – che possa essere funzionale ed efficiente uno strumento di vigilanza capace di agire su 6.000 banche, direttamente o tramite deleghe alle authority di ogni Paese. Specie perché il primo passo è già stato sbagliato.
Gran parte della credibilità della Bce, e quindi anche dell’unione bancaria, dipenderà dell’Asset quality review (Aqr) e dagli stress test che saranno condotti sulle principali banche europee. Il rischio di un fallimento di tutta l’operazione è elevato, in quanto è stata elevata l’operazione di maquillage condotta dagli Stati membri, fra cui anche l’Italia, che hanno fatto pressioni sui regolatori al fine di edulcorare gli stress test. Pesare come tutti gli altri asset o no i bond governativi in portafoglio durante l’esercizio di resistenza? Come gestire l’enorme mole di Non-performing loan (crediti dubbi, o Npl) in pancia delle banche? E come valutare tutte le emissioni di bond corporate (Additional Tier 1, Contingent convertible bond, hybrid e simili, ndr) di questi ultimi mesi, funzionali solo a raggiungere i coefficienti patrimoniali minimi per superare lo stress test? A rispondere a queste domande ci ha pensato il manuale della Bce sull’Aqr, pubblicato ieri. Nelle quasi 300 pagine ci sono tutte le indicazioni su come saranno condotte le prove di resistenza. L’impressione è che si sia giunti, nel momento del bisogno, a una ennesima soluzione di compromesso. Vale a dire a un Common Equity Tier 1 (CET1) minimo dell’8% del capitale nello scenario di base e del 5,5% in quello avverso, tutto secondo la normativa CRR/CRD4. Il CET1, parametro introdotto da Basilea III, è la parte di capitale più cruciale per una banca, ed è composta – azioni ordinarie, riserve di utili e altre riserve – in modo da posizionarle patrimonialmente più sicuro contro eventi avversi. Ma questi parametri così bassi sono quanto serve davvero alle banche europee? Secondo le stime di Standard & Poor’s, occorre avere più protezione. Infatti, S&P in dicembre ha ipotizzato che le banche europee abbiamo bisogno di circa 100 miliardi di euro. Una cifra doppia rispetto a quella prevista da Credit Suisse e più elevata rispetto a quella di Goldman Sachs, 75 miliardi di euro. Ma le altre previsioni, come quella di PricewaterhouseCoopers, sono ancora ancora maggiori. Per PwC saranno necessari 280 miliardi di euro per stabilizzare le banche del Vecchio continente. La visione della Bce, in ogni caso, è conservativa. Forse troppo. Ed è probabile che il vaso di Pandora si aprirà nel prossimo novembre, svelando perdite improvvise. Se così fosse, la credibilità dell’Eurotower, e di conseguenza dell’intera unione bancaria, non sarebbe a repentaglio. Meglio avere diversi sussulti finanziari nel breve termine, e poi un lungo periodo di stabilità, piuttosto che il contrario. Con l’attuale assetto, tuttavia, è proprio quest’ultima via, quella che porterà all’instabilità nel lungo termine, quella che è stata intrapresa.
Inoltre, per ora ci sono pochi poteri in mano alla Bce. In questo caso, bisogna ringraziare la Germania, conscia che se l’unione bancaria fosse perfetta, il maggior centro di potere nell’eurozona finanziaria sarebbe Francoforte, non Berlino. È quindi possibile che, con una unione bancaria imperfetta (stesso dicasi di Aqr e stress test), i mercati finanziari chiedano di più, cioè quella rivoluzione che sono la Germania può condurre: l’unione fiscale. Basterà? C’è da dubitarne, perché la causa di fondo è un’altra, che non c’entra esplicitamente con l’universo bancario. Lo stress sui mercati e la frammentazione sempre più accentuata tra cuore e periferia – solo da qualche mese in lieve riduzione – non sono altro che il sintomo di una malattia ben più estrema.
Alla base di tutto c’è il problema più significativo e profondo. Ci sono troppi interessi nazionali. In questo caso, l’unione bancaria è diretta figlia dell’eurozona e delle sue lacune originarie. Paesi troppo diversi da loro che cercano, in uno slancio economico senza precedenti, di unirsi sotto un unico cappello, senza però un coordinamento fiscale centralizzato. Certo, l’euro ha livellato i rendimenti dei bond dei Paesi meno virtuosi, riducendo la percezione del rischio e portandoli allo stesso livello dei Paesi più virtuosi, ma nel lungo periodo si è visto che, a fronte di shock endogeni ed esogeni, questa unione di fatto è quasi esplosa. Solo con altri due slanci, quello di Mario Draghi con le Outright monetary transaction (Omt) e quello della Commissione europea con l’unione bancaria, si è evitato il peggio. Ma sono rimaste le divergenze di fondo. Le banche tedesche continuano, e continueranno, a pensare da tedesche. Idem le italiane, così come le francesi, o le iberiche, o ancora le olandesi. L’operazione più colossale che potrebbe fare, ma che sarà frenata dagli interessi particolari su scala nazionale, è l’armonizzazione totale sui bilanci. A partire dal calcolo dei crediti dubbi e arrivando alla valutazione del rischio sul trading book, passando per la gestione della governance, gli istituti bancari europei sono un animale a plurime teste, ognuna pensante e ognuna capace di dare impulsi agli arti. Per ovviare a questo problema, la Bce ha specificato, di comune accordo con il Comitato di Basilea della Bank of international settlements (Banca dei regolamenti internazionali, o Bis), alcune linee guida per gli istituti bancari dell’area euro. Lo ha fatto utilizzando come parametro le proposte della European banking authority (Eba) delle scorse settimane. Armonizzare significa, anche di fronte agli investitori internazionali, mostrare unità, semplicità, trasparenza e chiarezza. Quattro virtù che servirebbero al sistema bancario dell’eurozona. Tuttavia, per colpa degli interessi nazionali, che siano politici o che siano economico-finanziari, è palese che non ci sia spazio per tale innovazione. È ancora troppa la discrezionalità fornita alle authority nazionali, che rivestiranno in qualunque caso un ruolo di primaria importanza. La morale della favola, in uno scenario del genere, è facile da intuire: la frammentazione tra banche era elevata, è elevata e resterà tale anche dopo l’Asset quality review e dopo l’entrata in regime di Ssm e Srm. Lo stress tornerà e potrà minare la già tiepida e disomogenea ripresa economica dell’eurozona.
Un’altra questione irrisolta riguarda la gestione delle criticità. L’architettura dell’unione bancaria contiene tante buone idee, ma anche numerose lacune. Come mutare la governance in caso di problemi durante le operazioni di ricapitalizzazione? Come limitare i poteri delle fondazioni bancarie in Italia, per esempio, nel caso di risoluzione di una banca? Fino a che punto la nuova authority europea di vigilanza potrà andare nel profondo dei problemi che affliggono quella singola banca? E ancora, come gestire il processo decisionale che porta all’approvazione di un piano di ristrutturazione bancaria? Sono queste alcune delle domande che non hanno ancora trovato una risposta chiara. Né il Ssm né il Srm hanno abbastanza poteri da essere davvero rivoluzionari come invece si vorrebbe far credere. In particolare, in riferimento al Srm, ci sono delle questioni particolari che ancora devono essere risolte, come il meccanismo di backstop, la protezione temporanea fornita alle banche che saranno oggetto di ricapitalizzazioni. Il Single resolution fund, ha specificato il commissario Ue al Single market Michel Barnier durante l’ultimo Ecofin, sarà mutualizzato nell’arco di 8 anni. Il primo apporto di capitale sarà pari al 40% del totale, e dopo tre anni si arriverà al 70 per cento. La Germania contribuirà per una cifra compresa fra i 10 e i 13 miliardi di euro. «È un buon compromesso», ha detto Barnier. E gli ha risposto, nemmeno troppo indirettamente, il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schäuble: «È giusto accelerare sul fondo di risoluzione, ma nei casi in cui la risoluzione coinvolga asset superiori a 5 miliardi di euro, è bene che a decidere siano gli Stati membri». Un altro potere tolto alla Bce, quindi. E sui backstop, che per ora rimangono fumosi? «Non c’è possibilità che si arrivi a un accordo per ora», ha detto Schäuble. Vale a dire che, anche in questo versante, la Bce e l’intera unione bancaria dovranno fare buon viso a cattivo gioco. Attualmente il Single resolution fund è dotato di 55 miliardi di euro, ovvero troppo pochi per le plausibili esigenze future degli istituti di credito dell’area euro. Inoltre, manca ancora il passaggio all’interno del Parlamento europeo, che però si è già espresso e ha reso più blando l’intero schema, al grido “I contribuenti non devono pagare per gli errori delle banche”. Uno slogan suggestivo, ma con poca concretezza. Infatti, in assenza di un accordo sui backstop, è facile che siano gli Stato membri a dover intervenire nel caso una banca in risoluzione non riesca a trovare i fondi che necessita sul mercato. Altre soluzioni, per ora non sono contemplate. C’è però un aspetto, contenuto nell’ultimo accordo sul Srm, che lascia spazio a un minimo di ottimismo. Se una banca finisce in risoluzione, la Bce può pretendere che le authority nazionali lascino a lei la competenza, risolvendo l’istituto nell’arco di 48 ore. Il tutto per evitare un contagio sistemico che potrebbe essere devastante, complice l’interconnesione bancaria nella zona euro.
Cosa fare quindi? L’unica via è quella odierna, fatta di accelerazioni e frenate, compromessi e livellamenti. Ancora una volta, l’eurozona ha dato dimostrazione di non aver imparato le lezioni del recente passato, quando il rischio di convertibilità della moneta unica era diventato il primo spauracchio degli investitori. Data la reticenza dei governanti all’introduzione di misure shock, nel bene e nel male, l’eurozona si deve accontentare di ciò che ha e sperare che siano gli operatori finanziari, a fine 2014, a rompere il ghiaccio, sempre più sottile, sul quale cammina la Bce. Forse il grande gelo risveglierà l’area euro dall’ovatta con cui è stata avvolta dall’Eurotower a partire dal luglio 2012, quando Draghi fece il discorso del “Whatever it takes”. Potrebbe essere l’ultima occasione per continuare il matrimonio – più di interesse che di amore – siglato fra mercati e Bce.