La chiamano la sindrome del certificatore e rimette con i piedi per terra molte speranze sollevate dal volontarismo ottimista di Matteo Renzi, quanto meno le speranze legate alla spinta alla crescita che potrebbe venire dal pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Se aggiungiamo il totem consociativo e il tabù del tre per cento, la politica economica del governo si trasforma in una seduta sul divano del dottor Freud. Al consiglio dei ministri di mercoledì prossimo, Renzi s’appresta già a compiere un passo avanti e due indietro. Il passo avanti è che verrà presentato un decreto per ridurre le imposte sui salari al di sotto dei 25 mila euro lordi l’anno: si tratta di dieci miliardi di euro che dovrebbero portare in media 80 euro in più in busta paga ogni mese, ai quali s’aggiunge una ventina di euro già stanziati. Meglio dell’ipotesi di ridurre l’Irap rilanciata da Enrico Morando il viceministro in quota Pd. Agire solo sui bilanci delle imprese rischia di ripetere il flop della fiscalizzazione degli oneri sociali decisa dal governo Prodi nel 2007. Soprattutto perché c’è un bisogno estremo di dare un impulso alla domanda interna per consumi.
Il primo passo indietro, invece, riguarda il cosiddetto Jobs Act. Non ci sono grandi dettagli, ma non verrà presentato nessuno decreto: bisogna consultarsi con i vari ministeri, per non parlare delle parti sociali, ci saranno uno o più disegni di legge, non si sa ancora che fine farà la cassa integrazione e quanto costerà il tutto. Una cosa certa è che anche Renzi si trova impigliato nella ragnatela burocratica e consociativa. Lo dimostrano le contraddizioni legate ai debiti della P.A. Il governo Letta ha già messo in pagamento 22 miliardi, Renzi parla di 60 (dunque dovrebbero essercene sul piatto altri 38), mentre la Banca d’Italia aveva calcolato 90 miliardi di euro. Ma qui davvero entriamo nel porto delle nebbie. Nulla è certo, né l’ammontare, né il sistema di pagamento, né la copertura. Non solo, il paradosso è che la stessa Unione europea che ha fatto schioccare la frusta imponendo un’accelerazione ai pagamenti, adesso lamenta che il debito pubblico aumenta e che l’utilizzo della Cassa depositi e prestiti rischia di diventare un espediente ai limiti delle regole di bilancio europee.
Intanto, bisogna chiedersi come mai il pagamento della prima tranche non ha avuto nessun effetto finora visibile sulla congiuntura. Forse ha dato un po’ di sollievo ai bilanci delle imprese, ma anche questo si vedrà solo in futuro. Così, nasce il sospetto che nemmeno questa misura sia una panacea, anzi. L’errore è stato presentarla come tale ignorando, magari per gettare il cuore oltre l’ostacolo, i dati oscuri e melmosi della realtà. Vediamo quali.
1) Nessun sa esattamente a quanto ammontano i debiti. Quella della Banca d’Italia è una stima di quanto chiedono le imprese, è la registrazione delle pretese; ma non si sa se corrispondono davvero a quel che stato, regioni e comuni hanno pagato. Anche perché nella finanza locale ci sono veri e propri buchi neri. Regioni come la Campania, la Calabria e il Molise, ad esempio, non hanno ancora inviato una lista della spesa al ministero del Tesoro. O non hanno debiti, o li hanno pagati in nero oppure non sanno quanto è uscito dalle loro casse. La Campania è una delle regioni più popolose e con il bilancio tra i più corposi, se davvero fossero 60 i miliardi da rimborsare, almeno dieci dovrebbero essere concentrati in Campania, ma sono stime fatte a spanne perché nessuno ha un quadro chiaro della situazione. Dunque, il primo ostacolo insormontabile, riguarda l’efficienza della pubblica amministrazione, soprattutto quella periferica che assorbe ormai oltre la metà della spesa pubblica totale.
2) E qui veniamo al certificatore. I debiti non sono tali finché i funzionari preposti non li hanno certificati come tali. Debbono cioè accertarsi della spesa, del lavoro compiuto e delle forniture, che i prezzi non siano stati gonfiati e che dietro le cifre non si nascondano malefatte di vario genere. Da questo punto di vita, i certificatori hanno un potere assoluto anche nei confronti dei fornitori. Ma, visti da un altro punto di vista, sono fuscelli al vento, sotto l’occhio implacabile della Corte dei Conti e della magistratura. Perché una norma di legge stabilisce la responsabilità individuale di chi deve mettere il bollino sulla pratica il quale, in caso di errore, può essere accusato di danno all’erario.
E’ una scheggia di rigore germanico, è la responsabilità nei confronti del bene pubblico da impero asburgico, ma inserita nella sbuffante e farraginosa macchina italica è diventata il sasso che ha inceppato tutto. Conoscendo come vanno le cose, chi si assume la responsabilità personale di dire “si paghi?”. La stessa sindrome coglie la Ragioneria generale dello Stato. Nessun provvedimento di legge può essere varato senza il bollino dei ragionieri i quali sanno che le misure del governo sono sempre in deficit. La costituzione prevede già che ogni uscita debba essere coperta con una entrata adeguata, però adesso l’obbligo è diventato cogente. Dunque, in teoria non si dovrebbe accendere nuovo debito se non per casi eccezionali.
Non è facile sbloccare la situazione. Impossibile abolire la regola, impossibile ignorarla e impossibile aggirarla. A meno che non si pensi a una sanatoria. E in effetti quello che il governo s’accinge a fare con i debiti della P.A. appare come una sorta di indulgenza plenaria. L’Unione europea potrebbe in teoria chiedere un rendiconto e dovendo salvare la faccia si lancerà in un’altra ammonizione. Dice il governo: “Garantisce lo stato” nei confronti delle banche le quali sconteranno i crediti presso la Banca d’Italia e questa presso la Banca centrale europea. La parola della Repubblica italiana è il collaterale da offrire in pegno all’Eurotower, ma se il debito sovrano torna sott’attacco che fine fa quella garanzia? La Cassa depositi e prestiti dovrebbe fare da stanza di compensazione, una sorta di banca rispetto alle banche nel caso esse siano in difficoltà, ma essa stessa non sfugge al dubbio di fondo.
Chi ha studiato il meccanismo proposto da Franco Bassanini, presidente della Cdp, e da Marcello Messori, sostiene che funziona; Bassanini è un fine giurista, Messori un ottimo economista e c’è da prenderli in parola. In fondo si tratta di un ammontare importante, ma tutto sommato modesto. Tuttavia, se ogni spesa dello stato deve essere compensata da pari entrate o da tagli di vecchie spese, ciò dovrebbe valere anche per il pagamento di beni e servizi della pubblica amministrazione. Tanto più per un paese obbligato a ridurre il suo enorme debito pregresso. E’ l’obiezione ortodossa, siamo sicuri che non salti fuori di nuovo da parte della Germania?
La Ue ha dato già uno schiaffone sonoro mettendo in discussione i conti che Fabrizio Saccomanni ha lasciato in eredità a Pier Carlo Padoan. Un altro sta per arrivare con le meticolose contestazioni sui fondi comunitari: secondo quel che ha anticipato La Stampa, la commissione si appresta a smontare l’accordo di partenariato inviato il 9 dicembre scorso. Dunque, non tira esattamente una buona aria nel cuore dell’Eurolandia. Renzi lo ha capito, non gli hanno lasciato nemmeno il classico semestre, con lui è stata subito luna di fiele anziché luna di miele. Qualcuno dice che gli eurosauri di Bruxelles, esattamente come i burosauri di Roma, non si fanno imbambolare dai cinguettii: per loro canta solo la carta bollata. Altri sostengono che è venuto al pettine il nodo del potere dei corpi intermedi: anziché accompagnare le scelte politiche e controllare che si svolgano in modo corretto, ormai da tempo hanno scelto di mettere i bastoni tra le ruote. Certo è che la governabilità passa attraverso questa cruna dell’ago.