Continuo a non capire per quale motivo Matteo Renzi continui a ripetere che «il Senato non deve essere elettivo». Questa battaglia quasi ossessiva del nostro presidente del Consiglio resta un mistero di fede, soprattutto se legata all’altra crociata, in tutto e per tutto parallela, quella per cui anche le province non dovrebbero più essere elettive. Tutto questo dovrebbe spingerci a farci una domanda sul perché del fastidio che Renzi (e i dirigenti del Pd che con lui condividono questa strategia) sembra provare per il peso delle consultazioni e per la continua misurazione del consenso che sono la fatica (ma anche il rito obbligato e necessario) di ogni democrazia.
Va ricordato che le elezioni politiche in questo scenario si svolgerebbero – grazie alla riforma elettorale voluta dal premier – con lo sbarramento più alto mai conosciuto in Italia, le europee hanno già una soglia fissata al quattro per cento, il finanziamento ai partiti è stato appena abolito per tutti, e anche i rimborsi elettorali per Strasburgo sono legati al raggiungimento di una soglia molto alta (prima potevi non ottenere rappresentanza ma venire rimborsato se arrivavi al 2 per cento). Gli eletti verrebbero designati per lista bloccata dai leader di partito, e non dagli elettori. Il paradosso che si può verificare, visto il premio di maggioranza dell’Italicum, è che un partito del 25%, che il premio porta al 51% dei seggi (che sarebbero nominati e non scelti), se la sua coalizione arrivasse al 37% (è un dato possibile, anche oggi, secondo i sondaggi) controllerebbe da solo il cuore del sistema politico. Viste le percentuali di affluenza, un partito che prende un quarto dei voti (magari con il 15% dei possibili elettori) potrebbe controllare il 50 per cento del Parlamento: se non è una oligarchia, sicuramente è una olicrazia (un governo dai pochi suffragi).
Non sarà un disegno autoritario – autoritari sono i regimi in cui non si vota più – di sicuro queste due crociate “abolizioniste” su Senato e Province, e quella contro l’elettività e a favore delle designazioni e dei rappresentanti nominatl, sono il frutto di una strategia populista che nel nome dell’anticasta cerca di eliminare qualsiasi disturbo al manovratore, qualsiasi corpo intermedio, qualsiasi vincolo. Per motivi a dir poco incomprensibili, tra l’altro – in questo scenario i sindaci diventerebbero una figura di rappresentanza sostitutiva impropria, spostati come figuranti da un luogo all’altro, ora al livello del Senato, ora al livello delle Province, anche loro nominati, in sostituzione degli eletti: francamente i sindaci dovrebbero occuparsi di fare i sindaci, che – come è noto – hanno già sulle spalle un mestiere impegnativo.
Il leader – in questo sistema che si profila – non deve conquistare potere grazie al consenso, ai voti, al raggiungimento di una soglia credibile di suffragi, ma viene aiutato con artifici che eliminano la concorrenza e abbassa la percentuale di consensi che gli serve. Ovviamente su questo disegno grava l’ombra di due imperdonabili menzogne: la prima è quella del presunto “risparmio”. Sulla democrazia, bisognerebbe premettere, non si risparmia: la democrazia è per definizione un costo, e uno spreco di tempo. Altrimenti si dovrebbe ammettere le dittature vincono qualsiasi sfida in termini di “efficienza”. Ma il bello è che i risparmi ventilati come l’unica vera motivazione discriminante, per sostenere scelte tanto radicali, di fatto non ci sono. Non si risparmia sulle province, che resterebbero in piedi con la loro struttura amministrativa, e non si risparmierebbe nemmeno sul Senato, dove l’unica spesa abolita sarebbero le indennità (meno di 80 milioni su oltre un miliardo di spesa).
Se questo improvvisato ma pericoloso disegno di ristrutturazione istituzionale fosse stato proposto, chessó, da Silvio Berlusconi , probabilmente il popolo della sinistra sarebbe sceso in piazza a fare le barricate. Siccome la propone un leader (che fra l’altro non è stato ancora eletto) si sorride alle battute contro i Costituzionalisti e alle accuse di corporativismo verso il presidente del Senato Grasso: povera patria.