Riuscirà il giovane Renzi a convincere l’Europa?

La sfida della crescita

Riuscirà il pie’ veloce Renzi a superare la tartaruga di Bruxelles? Il primo impatto con l’eurocrazia non è stato positivo. Anche se i sorrisetti di Manuel Barroso e Herman van Rompuy fossero davvero un equivoco, resta il fatto che il gatto e la volpe non hanno creduto alla possibilità che l’Italia rilanci la crescita e tenga saldi gli equilibri di bilancio (non solo il 3% nel rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto lordo, ma le condizioni ancor più barocche e artificiose del patto fiscale che scatta dal 2015, ma al quale bisogna già prepararsi). Il capo del governo non è andato né con il cappello in mano né con le orecchie d’asino per finire dietro la lavagna, ma s’è presentato addirittura con atteggiamento di sfida, per certi versi più simile a Silvio a Berlusconi che a Enrico Letta. Lo stesso Berlusconi, però, ha cercato dall’Unione un salvacondotto per poter aggirare l’austerità, adesso Renzi vuole il passaporto per superare i suoi confini. Per ora non l’ha ottenuto; è rimasto per così dire in stand-by e non solo per colpa sua.

La maggior parte degli osservatori e dei giornalisti ci ha raccontato il solito copione della discola Italia e della commissione guardiana della retta via. Ma le cose sono ben più complicate e questo rende il compito di Roma molto, molto difficile. Per capirlo vediamo a che punto della vita dell’Unione s’inserisce il tentativo di Renzi.

La commissione Barroso esce di scena fra un mese con un bilancio fondamentalmente in rosso, anzi potremmo dire che ha fatto da notaio a un doppio fallimento: in economia e in politica. In entrambi i casi è il frutto combinato della debolezza di Bruxelles e della ri-nazionalizzazione dell’Unione.

In economia, non c’è paragone con gli Stati Uniti. Anche Barack Obama, dopo i brillanti risultati nella gestione della grande crisi, ha battuto la fiacca, ma in ogni caso gli States mostrano una crescita costante da quattro anni a questa parte, con tanto di discesa della disoccupazione. Non basta, si può fare di più, tuttavia da questa parte dell’Atlantico la disoccupazione aumenta, la crescita ristagna e la deflazione incombe. L’euro si è salvato dal crac due anni fa, però è stato per l’opera coraggiosa e l’atteggiamento non dogmatico di Mario Draghi. Con un cerbero dell’ortodossia, la storia avrebbe tutt’altro percorso.

Certo, si sono create complesse impalcature come gli strumenti salva stati e conosciamo bene il solito apologo dell’Unione che assomiglia a una cattedrale gotica; ma la gestione della crisi greca (cioè di un paese il cui debito e il cui prodotto lordo è minimo rispetto all’Eurolandia) è stata contraddittoria e a dir poco penosa. Adesso raccontano che chi ha ingoiato l’amara medicina si sta riprendendo. Sarà, ma l’ultimo dato sul pil spagnolo segna meno 0,1 per cento, il tasso di disoccupazione il 25,8% (più del peggior risultato americano durante la Depressione degli anni ‘30), il disavanzo pubblico è a meno 5,8 rispetto al pil e il debito viaggia ormai verso quota cento. Quanto alla Grecia, le cifre del miglioramento sono: pil a -2,3; disoccupati al 27,5; bilancio pubblico -2,5 e il debito fra poco raggiunge il Giappone. Sono passati ormai quattro anni esatti dal fallimento greco; sei anni dai crolli a catena di Wall Street.

Di chi è la colpa? Della Germania? Certo i tedeschi hanno agito in modo selfish, hanno rifiutato nel 2008 una gestione comune della crisi finanziaria, hanno pensato a salvare e difendere le proprie banche e imprese, e continuano a farlo. Pochi giorni fa Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca, ha ribadito che l’euro non è troppo forte per l’economia tedesca. Punto. Non c’è nessun motivo, dunque, per intervenire. Chi si lamenta, come gli italiani, pensasse a fare i compiti a casa. Il governo di Berlino ha detto e ripetuto che l’attivo mostruoso della bilancia commerciale (sette punti di pil, rispetto all’1,7 della Cina) non è un gap pericoloso, come sostengono gli americani, ma un segno di salute del made in Germany. Tutto questo lo sappiamo a memoria, e non va bene. Chi ha consentito alla Germania di farsi gli affari suoi se non la Commissione Ue? Perché la sorveglianza vale solo a senso unico e gli squilibri stanno da una parte soltanto?

Sul piano politico il fallimento più clamoroso si chiama Russia. Qui le colpe ricadono in gran parte su Angela Merkel che ha scommesso sulla buona volontà di Vladimir Putin, aumentando la dipendenza energetica dalla Russia e lasciando gli ucraini tra color che son sospesi. Quanto alla Ue, ha cantato “vorrei e non vorrei” senza però arrivare al dunque, al contrario di Zerlina nel don Giovanni. Il New York Times ha pubblicato un puntuale e terribile articolo, diplomaticamente ben informato e ispirato, che mette in luce tutte le ingenuità e i veri e propri errori di Frau Angela, dello svedese Carl Bildt impegnato nel progetto di allargamento a est, delle autorità di Bruxelles. Possiamo dire che anche l’Italia aveva seguito la Neue Ostpolitik della Merkel. Ma almeno Berlusconi, sia pur con fughe in avanti e personalismi alla sua maniera, aveva offerto a Putin persino l’ingresso nella Nato, in un velleitario disegno neogollista di unione dall’Atlantico agli Urali. Negli ultimi anni, invece, è prevalso un atteggiamento di prudenza mercantile, mentre la Nato arrivava ai confini della Russia. Gli eventi sono ancora troppo caldi per letture retrospettive equilibrate, ma l’unica cosa certa è che la nuova guerra fredda porta il segno degli errori europei.

È a questa Ue debole, divisa sul piano orizzontale (nord-sud) e verticale (est-ovest) che Renzi deve chiedere il permesso di crescere, conditio sine qua non per mantenere fede al fiscal compact. Da solo non ce la può fare, naturalmente, ha bisogno di amici e alleati. Ma chi? L’operazione simpatia con la Merkel ha funzionato, però nella sostanza Berlino non gli ha offerto nulla. “Drei comma nul”, è l’eterna sentenza, tre per cento senza eccezioni. Lo 0,2 o 0,4 di margine all’interno della gabbia, dipende solo dalla capacità di tagliare le spese.

Ciò vale anche per la svalutazione fiscale. Qui Renzi trova buona stampa tra gli inglesi (vedi l’Economist di questa settimana) e un appoggio francese solo di maniera, perché François Hollande ha seguito un’altra strada: il taglio ai contributi sociali e alle imposte sulle imprese (come vorrebbe la Confindustria italiana) invece delle tasse sui salari e non la riduzione della spesa pubblica. Quindi la ricetta italiana è allo stesso tempo più di sinistra (rischiando di attizzare i fuochi nel partito socialista) e più liberista (alimentando le polemiche da destra per quanto strumentali). Italia e Francia vogliono camminare verso la stessa meta, ma su strade diverse. Le vie dello sviluppo sono senza dubbio molte, ma tutt’altro che infinite. E, in ogni caso, non si può dire che ci sia un coordinamento tra i due paesi.

Per quel che riguarda gli altri, non è cosa. La Spagna si è piegata, ha chiesto e ottenuto il salvataggio delle proprie banche e non può che obbedire. In ogni caso gli spagnoli sono nelle mani dei tedeschi ormai da lungo tempo. Il resto non ha nessun margine e si tratta di paesi irrilevanti. Renzi trova sostegni solo tra chi vuole forzare dall’esterno i limiti dell’austerità, cioè gli americani e gli inglesi. Loro giocano fuori dal campo; possono influenzare la partita, tuttavia la palla ce l’ha in mano chi ha adottato l’euro.

Anche questo appoggio, del resto, avrebbe un prezzo molto pesante: la rottura con Mosca che per l’Italia significa non solo rimpiazzare il gas, ma sciogliere intrecci molto complessi e avviluppati che coinvolgono grandi banche (tra le quali Unicredit che ha gli oligarchi russi nel capitale), importanti compagnie, l’industria del lusso dove la domanda russa conta per circa un terzo. Dunque, avremmo una ricaduta che potrebbe stroncare la nascente ripresa. La situazione ricorda un po’ quella della Fiat con i suoi soci libici quanto Ronald Reagan decise di bombardare Gheddafi nel 1986. Solo che questa volta è in ballo non un’azienda, per quanto la più grande, ma un intero paese.

Renzi è un intuitivo, quindi ha visto tutte le uova sulle quali cammina e per evitarle ha cominciato a saltellare. Ha dietro una strategia che lo sostenga? In quale visione geopolitica s’inserisce la sua diplomazia, visto che la politica estera ormai va a braccetto con la politica economica? È in grado l’Italia di sostenere i propri interessi che non coincidono con quelli di molti altri paesi dell’Unione? Renzi ha detto che la commissione e il consiglio si chiamano così perché si discute e poi si decide tutti insieme; ha ragione, però finora l’azionista di maggioranza ha determinato tutte le scelte. C’è un solo organismo nel quale la Germania non ha imposto la propria volontà a tutti gli altri: la Bce. E per fortuna. Ma la dice lunga su quanto conti la leadership, la sua autorevolezza e la sua abilità.

Di qui a maggio il governo italiano sarà chiamato a calare le carte anche a proposito dei vertici Ue. Massimo D’Alema aspira a una posizione di rilievo. È esclusa la presidenza per il gioco dei bilancini nazionali e politici. Tuttavia siamo solo agli inizi. Premessa di tutto è impedire una vittoria clamorosa degli anti-europeisti; per questo, gli europeisti dovranno far fronte comune (dunque sarebbe una catastrofe prendere di nuovo l’Italia per la gola) e offrire dell’Unione un’immagine migliore, avendo anche il coraggio dell’autocritica. Wishful thinking? E chi lo sa?