“Sangue immigrato”, ne abbiamo tanto ma ne serve di più

Aumentano i donatori di sangue stranieri

L’integrazione passa anche dal sangue. Un gesto semplice, quello della donazione, capace di abbattere tabù culturali e pregiudizi. Un modo, soprattutto, per unire immigrati e italiani. Perché “l’oro rosso” non ha cittadinanza, non parla una lingua diversa, non ha barriere religiose da superare.Nel nostro Paese i donatori di sangue sono un milione e 740mila, circa il 4,4% della popolazione potenzialmente idonea. Numeri che posizionano gli italiani tra i migliori volontari d’Europa in questo settore. Tra i motivi dell’exploit degli ultimi anni, c’è in particolare il boom di donazioni da parte di stranieri, in gran parte extracomunitari. Dieci anni fa erano circa 25mila, nel 2010 sono saliti a 40mila. Oggi, nonostante non ci sia un dato nazionale ufficiale univoco, sarebbero tra i 125 e i 150 mila (il 2,5% degli immigrati presenti sul territorio). Un donatore su dieci, insomma, non è italiano.     

L’Italia è uno dei Paesi meno restrittivi nelle norme per la donazione del sangue. Non ci sono limitazioni per i donatori gay, ad esempio, contrariamente a quanto accade quasi ovunque nel mondo per la radicata paura dell’Hiv associata all’omosessualità. Per quanto riguarda gli immigrati, gli unici paletti sono la residenza nel nostro Paese da almeno due anni e la conoscenza basilare dell’italiano, necessaria per la comprensione del questionario medico. Le comunità più generose nella donazione sono quelle nordafricane, sudamericane e dell’Est Europa. In particolare si distinguono romeni, serbi, albanesi, marocchini. I meno ricettivi, invece, sono cinesi e indiani. «L’importanza dei donatori immigrati non è solo numerica», spiega Antonio Bronzino, vicepresidente di Fidas (una delle maggiori associazioni di donatori in Italia). «Il plasma ‘straniero’ è un tesoro perché alcune popolazioni hanno gruppi e sottogruppi sanguigni molto rari tra i caucasici. Le loro donazioni consentono quindi di avere sangue compatibile al 100% altrimenti difficile da trovare».

Grazie al lavoro instancabile delle associazioni, a stretto contatto con i mediatori culturali, sono state sviluppate una serie di iniziative per avvicinare gli immigrati alla donazione. «La religione, ad esempio, non è una barriera ma una leva», secondo Bronzino. Ecco perché negli ultimi anni sono state organizzate raccolte periodiche di sangue nelle moschee. A volte sono stati gli stessi Imam a invitare i fedeli a donare. «Nella cultura islamica il sangue è carico di un’evidente dicotomia: ora è sostanza halal (lecita), quando è invisibile, contenuto nel corpo, perché rappresenta l’energia e il veicolo della vita, ora haram (impura), soprattutto quando è visibile e fuoriesce dal corpo (emorragia, deflorazione, rituali sacrificali, macellazione della carne, ciclo mestruale)», scrive nelle sue ricerche Annamaria Fantauzzi, docente di Antropologia medica e culturale all’Università di Torino e ricercatrice in Etnopsichiatria all’Ehess di Parigi. «Nella donazione (…) il sangue si connota come sostanza halal, perché il fluido non entra in contatto con l’esterno e con ciò che può contaminarlo».

Questo spiega, in parte, perché le comunità musulmane del Maghreb siano quelle che danno il maggior contributo alla donazione del sangue. La dottoressa Fantauzzi, in quanto responsabile dell’Osservatorio scientifico nazionale per la cultura del dono del sangue delle comunità immigrate per Avis, ha esperienza diretta del fenomeno. «Molte delle comunità di immigrati con cui abbiamo avuto a che fare si sono fidelizzate nel tempo, gli stranieri vengono spontaneamente e con regolarità a donare il sangue», racconta. «La comunità marocchina è tra le più attive in tutto il territorio nazionale, dalla Sicilia a Torino. Anche altre comunità danno buoni riscontri, come quella rumena e sudamericana. In questi ultimi due casi, tuttavia, ci scontriamo talvolta con un pregiudizio negativo che si portano dietro dai Paesi di origine: molti stranieri pensano che – anche in Italia – dietro la donazione ci sia un giro di soldi e, attribuendo al sangue una valenza “sacra”, non vogliono che diventi oggetto di commercio. Abbiamo registrato anche casi opposti in cui immigrati che pensavano di vendere il proprio sangue in cambio di denaro, scoperto il malinteso, se ne sono andati senza donare».

Gli stranieri che meno sembrano propensi alla donazione del sangue sono cinesi e indiani. «In alcune zone della pianura padana con forte presenza di immigrati indiani si stanno portando avanti dei progetti, che iniziano ad avere dei buoni risultati. I cinesi, invece, restano un enigma. Si sta provando ad aumentare l’interazione con la comunità di Prato ma con scarso successo. Sicuramente influisce il fatto che sia una comunità molto chiusa, che tende ad autoemarginarsi», spiega la dottoressa Fantauzzi. La scarsa propensione alla donazione è un problema anche nei Paesi di origine. In India la questione è talmente grave che la Croce Rossa indiana arriva a promettere la salvezza per l’anima dei donatori di sangue, facendo leva sul valore karmico delle benedizioni che si riceveranno da chi riceve quel sangue e dai loro parenti.  Seguendo un approccio più moderno, il poco più che ventenne Karthik Naralasetty ha inventato SocialBlood, un social network che – sfruttando Facebook – mette in contatto donatori e riceventi, suddivisi in base al gruppo sanguigno.

In Cina la cronica scarsità è tale da aver indotto la mafia a occuparsi della questione per trarne profitto. Alcuni anni fa venne scoperto nella regione del Guandong un giro che coinvolgeva centinaia di donatori, pagati per essere costantemente salassati. «Nella medicina classica cinese, il sangue è concepito come una forza essenziale per la vita, come il “qi”, e ha impatto sulla costituzione della persona dal punto di vista della vitalità fisica e del carattere», si legge sul sito del Centro nazionale sangue (Cns), struttura del ministero della Salute. «La perdita di sangue è considerata nociva alla salute, e si presume che tale credenza giustifichi le basse percentuali di donatori di sangue in Cina. Alcuni antropologi che hanno studiato il fenomeno sul posto riportano come molte persone sottoposte una volta a donazione, si percepiscano più deboli e pallide, perché hanno perso parte del “qi”».

Gli scenari futuri sono già stati annunciati. Al momento l’Italia ha raggiunto l’autosufficienza nelle scorte di sangue. «Ma nel 2030, a causa del ricambio generazionale, perderemo il 20% degli attuali donatori», spiega ancora Antonio Bronzino di Fidas. Servirà sempre più coinvolgere le fasce che oggi donano meno: giovani, donne e immigrati. Nella raccolta del sangue, e non solo, l’Italia di domani dipenderà da loro. 

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