Sorgenia e gli aiuti di Stato al mercato elettrico

Le asimmetrie italiane

Il mercato elettrico si trova oggi in mezzo al guado: liberalizzato ma non troppo, ancora nell’orbita dello Stato ma non del tutto. In questo post si cerca di fare un po’ d’ordine, partendo da Sorgenia, E.On, capacity payment e l’immancabile Cdp.

Un lungo articolo di Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo, pubblicato a tutta pagina sul Corriere della Sera di domenica, mette sotto i riflettori la crisi di Sorgenia, società a cui restano sì e no tre settimane di liquidità e per la quale si sta cercando insistentemente una qualche “soluzione di sistema“. Massaro e Rizzo descrivono abbastanza fedelmente la situazione, ma ci montano troppa panna politica attorno e in tal mondo sviano l’attenzione sia dalle ragioni vere delle difficoltà di Sorgenia, sia dal più generale cambiamento di fase che sta travolgendo l’intero settore elettrico. Fare un minestrone tra Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi, Vito Gamberale (!) e Matteo Renzi, presentare il discusso meccanismo di capacity payment come un aiuto di Stato a Sorgenia, ricamare sulla telefonata rubata a Fabrizio Barca, non aiuta a fare chiarezza e, anzi, dà a tutto un’allure fumettistica che non giova a nessuno.

Massaro e Rizzo, in particolare, si sono persi due elementi, ed è un peccato perché questo rende monca la loro ricostruzione dei fatti, di per sé corretta. Il primo è la storia del disimpegno di un altro importante operatore, la tedesca E.On, che da tempo ha annunciato di voler abbandonare il nostro paese: Sorgenia, insomma, ma non solo Sorgenia. Non appena la notizia – nell’aria da un po’ – ha assunto dimensione pubblica, sono immediatamente fioccate le manifestazioni di potenziale interesse e le smentite. Pian piano però si è fatta strada l’ipotesi di un coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti. La Cdp funziona così: prima “gira la voce”, poi la voce si fa insistente, quindi viene smentita, infine l’operazione si realizza in un amen (citofonare Ansaldo energia).

Il secondo elemento che è sfuggito all’attenzione di Massaro e Rizzo è la causa dell’impasse di Sorgenia. Certo, l’azienda ha perseguito una politica di espansione aggressiva di cui oggi paga il conto: ha attivato impianti quando la condizione diovercapacity del sistema elettrico italiano era ormai un fatto (anche se, quando l’iter per la loro realizzazione era stato avviato, lo scenario era ben diverso), ed è in tal modo rimasta travolta dalla crisi dei consumi. Tuttavia, Sorgenia non paga dazio solo alla recessione, che pure è un elemento cruciale nella vicenda. I consumi elettrici nel 2013 sono crollati ai livelli del 2003, proprio in chiusura di un ciclo di investimenti, iniziato nei primi anni 2000, che ha portato a un completo rinnovo del parco di generazione. L’andamento macroeconomico è un fattore largamente esogeno al mercato elettrico, e come tale non controllabile. Eppure, è fondamentale, per capire Sorgenia, rendersi conto che nel 2012 il parco elettrico italiano poteva contare su una potenza efficiente lorda media pari a 124 GW, contro una domanda di picco (10 luglio 2012 alle ore 12) di 54 GW. La capacità produttiva era più che doppia rispetto al massimo carico domandato dalla rete.

La crisi economica, dunque, ha indebolito Sorgenia (ed E.On e tutti gli altri: nessuno sta troppo bene, oggi, nell’industria elettrica). Ma la vera malattia del settore elettrico, e in particolare dei generatori convenzionali, ha un altro nome: si chiama “politica industriale”, o “politica energetica”, o qualunque altra espressione a vostra scelta purché contenga la parola “politica”. Il boom delle fonti rinnovabili, sulla scia di sussidi generosissimi, ha fatto crescere la capacità di generazione “verde” da 24 GW nel 2008 (di cui quasi 18 GW vecchio idroelettrico) a 47 GW nel 2012. Le fonti rinnovabili godono di “priorità di dispacciamento”, vale a dire che l’energia elettrica da esse generata può “scalzare”, sulla rete, quella di origine termoelettrica. Per di più sono remunerate, per mezzo degli “incentivi”, a condizioni che ne rendono certa la competitività. Domanda virtualmente illimitata più prezzi ben al di sopra dei costi di produzione non potevano che produrre una tendenza dell’offerta a dilatarsi indefinitamente, almeno fino al giro di vite sugli incentivi avvenuto nel 2012.

Risultato? Da un lato, le rinnovabili hanno ridotto le dimensioni del mercato contendibile, in questo amplificando gli effetti della recessione: se nel 2008 i produttori convenzionali hanno potuto competere per servire circa 295 TWh (cioè la differenza tra una domanda lorda totale di 353 TWh e un 16% di produzione rinnovabile sussidiata), nel 2012 la loro “fetta” di mercato si era ridotta del 16%, ad appena 248 TWh (a fronte di una domanda lorda totale di 340 TWh e una produzione rinnovabile sussidiata di circa 92 TWh). In realtà l’area contendibile del mercato, se si considerano impianti essenziali, altre unità sussidiate come le centrali Cip6, i vincoli di rete, ecc., è ancora inferiore.

Dall’altro lato, l’esplosione delle rinnovabili non solo ha abbattuto i volumi: ha pure intaccato i margini. In virtù delle modalità di funzionamento della borsa elettrica, le fonti rinnovabili producono l’effetto di “tagliare” i prezzi di mercato dell’elettricità (in quanto si remunerano attraverso sussidi, e derivano solo una piccola parte dei propri ricavi dal valore dell’energia prodotta). Si tratta del cosiddetto peak shaving. Dal punto di vista dei produttori convenzionali, questo significa che la loro quota di mercato viene erosa proprio nelle ore più remunerative. Il conseguente aumento dei prezzi sulla borsa elettrica nelle ore serali, quando la produzione fotovoltaica crolla rapidamente e gli impianti termoelettrici devono salire con una rampa di produzione molto ripida, non basta a controbilanciarne l’effetto.

“E’ il mercato, bellezza”, in questo caso, è una spiegazione insoddisfacente. Perché non è certo imputabile al mercato lo sviluppo prepotente di un parco rinnovabile sovradimensionato ed extraremunerato. Un parco, per giunta, che produce seri problemi di gestione del sistema a causa della sua intermittenza, e che presuppone l’esistenza di capacità convenzionale in grado di fornire backup in qualunque momento sia necessario, ma con difficoltà sempre maggiori (salvo un’inattesa ripresa della domanda) a coprire i suoi costi fissi.

Il dibattito sul capacity payment va inserito in questo contesto. Con due ulteriori precisazioni. Primo: data l’attuale overcapacity non vi è, oggi e nel futuro prevedibile, particolare necessità di uno schema di remunerazione della capacità non utilizzata a fini di sicurezza del sistema. Secondo, e conseguenza: quello che noi chiamiamo capacity payment è, di fatto, per il modo in cui è congegnato e soprattutto per le sue modalità di finanziamento (a carico dei consumatori) la creazione dell’ennesima voce di stranded cost in bolletta. (Curiosamente, Massari, Rizzo e tanti altri non sembrano essersi accorti di una misura molto più scandalosa e molto più ad personam, perché va a sanare non costi fatti emergere da decisioni politiche, ma da errori nelle strategie di approvvigionamento delle singole aziende: il cosiddetto capacity payment gas).

In questo senso, è vero che si tratta di un parente stretto di un aiuto di Stato, ma è falso – rispetto al ragionamento di Massari-Rizzo – che sia pensato ad hoc per Sorgenia. Si tratta di un aiuto (o, meglio, un risarcimento) a un intero comparto industriale azzoppato da precise, colpevoli e conscie scelte politiche. Scelte politiche che furono esplicitamente finalizzate a regalare una rendita ai produttori rinnovabili e a colpire l’industria elettrica convenzionale. In tutto questo, chi ha recitato una doppia parte in commedia sono le banche: che per un verso sono state protagoniste del lobbying pro-sussidi verdi (essendosi accapparrate una buona fetta degli extraprofitti), per l’altro si trovano oggi nella scomoda posizione di creditori dell’industria tradizionale. Le parole di Giuseppe Mussari, che nel gennaio 2011 da capo dell’Abi parlò di una “bolla speculativa pronta a esplodere” nelle rinnovabili dove le banche “avevano fatto troppo”, sono molto sinistre se lette in retrospettiva (sul tema rimando all’analisi di Gionata Picchio).

La riflessione sul capacity payment è (o dovrebbe essere) soprattuto una riflessione sui disastri dell’intervento pubblico e della “politica industriale”. L’unica via d’uscita è imputare correttamente i costi di sistema: facendo in modo che siano le stesse fonti rinnovabili a coprire i costi di sbilanciamento causati dalla loro intermittenza, come peraltro chiede l’Autorità per l’energia. Questo intervento resta molto parziale, perché andrebbe a “tappare” i costi diretti ma non quelli indiretti derivanti dallo spiazzamento dei produttori convenzionali causato dai sussidi pubblici. Ma, quanto meno, sarebbe una soluzione tecnicamente ragionevole, che darebbe (indirettamente) sollievo anche ai produttori convenzionali.

Ma, tornando al quadro più generale, è importante non leggere le vicende di Sorgenia, E.On e altre che potrebbero aprirsi come storie individuali. Queste parabole sono diverse, ma sono uguali. Sono uguali perché, seppure in modo differente, rendono evidente una criticità pesantissima nel nostro mercato, ossia l’eccesso di capacità produttiva che si è venuto a determinare. “Voi italiani – mi ha detto tempo fa un amico straniero, sintetizzando molto bene la questione – avete il parco di generazione più nuovo, più efficiente, più pulito, e più inutilizzato d’Europa”.

In sostanza, a fronte di un problema di natura in parte macroeconomica, ma soprattutto politica, si è venuta a creare una perversa coalizione di attori che chiedono il ritorno prepotente dell’interventismo pubblico. Ritorno, peraltro, che è già nei fatti dal punto di vista normativo, con le ultime invasioni di campo governative (contenute anche nel decreto Destinazione Italia) ai danni dell’Autorità per l’energia e del mercato. Ritorno, inoltre, che è un dato di fatto pesantissimo negli assetti proprietari: non solo i maggiori operatori di rete sono a trazione pubblica (Terna è controllata dalla Cdp, Enel Distribuzione fa capo a Enel che è controllata dal Tesoro, altre reti locali sono delle ex municipalizzate), ma anche nella parte liberalizzata del mercato il pubblico pesa. Nella generazione, la quota congiunta degli operatori pubblici sta attorno ai due terzi, nei mercati retail ancora sopra. La stessa Strategia energetica nazionale, per quel che vale, lascia poco spazio alla competitione e ritaglia un ruolo sempre più ampio alla pianificazione. Di privatizzare questi operatori, nessuno ne parla neppure nell’ambito della più ampia discussione sulle privatizzazioni che è in corso ormai da tre anni.

In questo contesto, ulteriori passi avanti direttamente della Cdp o indirettamente attraverso Fsi o F2i segnerebbero il deciso, e forse decisivo, superamento di una barriera alla presenza pubblica. Un conto, infatti, era il continuo rimpallo di asset tra operatori comunque pubblici (Tesoro, Cdp, ex municipalizzate, ecc.). Altra cosa è il subentro di questi ultimi a operatori privati, quali E.On e Sorgenia. Sebbene il sistema si trovi oggi in una fase critica e bisognosa di un serio aggiustamento, la soluzione non può venire dalla progressiva rinazionalizzazione. Purtroppo, assillati dai gravi problemi di breve termine, molti operatori stanno mettendo volontariamente la testa sotto la ghigliottina: più spingono per formule di remunerazione tariffaria e contro i rischi di un mercato libero, più si rendono inutili, marginalizzando il senso della competizione come strumento di “scoperta del prezzo”.

In un mercato che premia chi conquista clienti, la concorrenza è tutto. In un mercato che premia chi si posiziona meglio rispetto alle partite normative e regolatorie, alla fine qualcuno si chiederà perché mai un gioco del tutto interno al recinto delle decisioni pubbliche debba lasciare spazio ai privati. Le prossime mosse di Cdp & Co. potrebbero segnare l’abbandono – sostanziale, ancorché non formale – della concorrenza nel mercato elettrico. A riprova che non importa quanto bene intenzionate siano le politiche (i sussidi alle rinnovabili servivano a salvare l’orso polare dall’estinzione, no?): lo Stato è sempre un elefante, il mercato è sempre una cristalleria.

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