“The fragile five”, Emergenti alla prova delle riforme

Non solo Brasile, India e Turchia

Morgan Stanley li ha bollati come “The Fragile Five”: India, Indonesia, Sudafrica, Brasile e Turchia. Fino a qualche mese fa erano considerati esempio di “magnifiche sorti e progressive” e possibilità di business illimitate. Che facessero parte dei BRICS, dei MINT o dei CIVETS – i tanti acronimi con cui giornalisti ed analisti si dilettano a catalogare le realtà economiche – i Paesi in via di sviluppo erano i grandi destinatari dei flussi di capitale. Adesso quegli stessi capitali stanno facendo marcia indietro e tornano in Occidente. Effetto in primo luogo del tapering, la decisione della Federal Reserve di ridurre progressivamente gli stimoli monetari (il cosiddetto Quantitative Easing). Alcuni investitori parlano del prossimo mese di aprile come del “tipping point”, quando l’arretramento del programma di acquisti da parte della Banca Centrale americana farà sentire il proprio impatto reale sull’economia mondiale.

Non ci sono solo i Fragile Five. Anche Argentina, Russia, Nigeria, per fare altri nomi, sono guardati con sospetto. Ogni Stato fa storia di sé, ogni caso ha i propri specifici elementi di fragilità, ma il quadro è spesso simile: moneta locale debole, inflazione galoppante, riserve di valuta straniera in calo (è avvenuto in 11 delle 17 key emerging economies). In molti Paesi un fattore importante è la stabilità, o meglio l’instabilità politica. Il 2014 è anno elettorale (in India, Brasile e Turchia, ad esempio) e l’esito non è scontato. Anche se nel 2013 le economie dei developing countries sono cresciute del 4,5 per cento, contro l’1,2 per cento dei cosiddetti Paesi avanzati – il gap più basso, in ogni caso, dal 2002 – “gli investitori hanno cominciato a badare più alla qualità che alla quantità della crescita, e hanno dedotto che non fosse così forte come poteva sembrare in apparenza”, sottolinea Mark Matthews, capo ricerca per l’Asia della Julius Baer Bank.

Nei primi quaranta giorni dell’anno sono usciti più capitali dai mercati emergenti che in tutto il 2013, secondo i dati di Barclays Plc. Nella settimana dal 5 al 12 febbraio la fuga dai fondi dedicati agli emerging markets è stata pari a 4,5 miliardi di dollari, portando il totale a 29,7 miliardi, contro il 29,2 dell’anno scorso. In quella successiva, il ritmo è calato (circa 1,6 miliardi di dollari), ma si è trattato comunque della diciassettesima settimana consecutiva di riflusso. A gennaio la Borsa argentina ha perso il 24 per cento, quella turca l’8,7. A Brasilia il calo è stato dell’8,2 per cento, a Pechino del 6,6, secondo Jp Morgan Asset Management. Il discorso non cambia se si guarda alle monete: il fanalino di coda è Buenos Aires (il peso ha perso il 23 per cento rispetto al dollaro), seguita da Mosca (meno 7,2 per cento), Pretoria (6,6 per cento) ed Ankara (meno 5,2).

TURCHIA

Proprio la Turchia è l’emblema di chi è passato in breve tempo da success story a paradigma negativo. Solo poco tempo fa il Paese conosceva una crescita a doppia cifra. L’Akp di Erdogan era un modello per tutti, o quasi, i protagonisti della primavera araba, grazie alla capacità di coniugare tradizione e moderno sviluppo economico. Poi, una serie di problemi, in serie: le proteste di Gezi Park, lo scontro interno all’Islam politico, con il predicatore Fethullah Gulen, esiliato negli Usa ma piuttosto influente in molti settori della società turca, come l’istruzione, la polizia, la magistratura.
Gli scandali di corruzione che hanno coinvolto il partito al potere, il pugno duro su stampa e giudici. Anche se l’Akp resta il favorito alle prossime elezioni municipali, il suo consenso è declinante e l’instabilità politica si è riverberata su un’economia dalle basi ancora fragili. Nel 2013 la lira turca ha perso il 17 per cento contro il dollaro e il deficit ha superato il 7 per cento del Pil. A dicembre l’inflazione ha raggiunto il 7,4 per cento. A fine gennaio la Banca Centrale, per frenare la fuga di capitali, ha alzato i tassi dal 7,75 al 12 per cento, ma gli effetti sono stati di breve durata. Il vicepremier Ali Babacan ha minimizzato i rischi – “i capitali in uscita non sono vitali per la nostra economia”, ha detto – ma se l’instabilità dovesse perdurare, le conseguenze sarebbero notevoli.

INDIA

La Turchia non è stata la sola ad alzare i tassi di interesse per combattere l’inflazione ed impedire la fuga di capitali. Anche l’India ha aumentato, sempre a fine gennaio, il costo del denaro, portandolo all’8 per cento. Come ad Ankara, l’effetto è stato di breve durata. Nel 2013 la rupia ha perso l’11 per cento nei confronto del dollaro. L’inflazione è calata, ma resta vicina al dieci per cento, mentre l’obiettivo di Nuova Delhi è quello di scendere al 4 per cento entro il 2016. Il governatore della Banca Centrale, Raghuram Rajan (autore, tra l’altro, di un noto saggio assieme a Luigi Zingales, “Salvare il capitalismo dai capitalisti”) non ha gradito le mosse della Fed («Vorremmo vivere in un mondo in cui i Paesi tengono conto dell’effetto delle loro politiche sugli altri Stati», ha dichiarato con tono polemico). Anche per l’India il 2014 sarà un anno elettorale e il quadro politico non è stabile. Si vota a maggio e l’era dei Gandhi, adesso rappresentati da Rahul, potrebbe volgere al termine, di fronte all’avanzata diNarendra Modi, il candidato premier del rivale Bharatiya Janata Party (Bjp). In ogni caso, situazione fluida e previsioni difficili, un rischio per gli investitori.

BRASILE

A metà gennaio era stato il Brasile ad alzare i tassi di mezzo punto, portandoli al 10,5 per cento. L’economia di Brasilia è cresciuta dello 0,7 per cento nell’ultimo quarto del 2013, mitigando i timori di una completa recessione (dopo che nel terzo quarto si era avuto il segno meno, per la prima volta dal 2009), ma si tratta in ogni caso di cifre lontanissime da quelle conosciute negli ultimi anni. Come hanno mostrato le proteste che hanno macchiato la Confederations Cup di calcio (e che rischiano di ripetersi in occasione dei prossimi mondiali), l’aumento dei prezzi ha fortemente colpito la classe media. Infrastrutture e servizi pubblici sono inefficienti. L’anno scorso il real ha perso il 15 del proprio valore nei confronti del dollaro e gli investitori non sanno fino a che punto la banca centrale continuerà ad alzare i tassi, considerando che le pressioni per una politica monetaria più espansiva aumenteranno in vista delle elezioni presidenziali di ottobre. Senza contare i rischi di contagio dalla vicina Argentina.

INDONESIA

Cambiando continente, il Paese che nel 2013 ha sofferto di più il rallentamento della crescita in Asia è stato l’Indonesia. I capitale stranieri sono fuggiti e la moneta locale, la rupia, ha perso il 25 per cento nei confronti del dollaro. A gennaio la Banca Centrale di Jakarta ha resistito ad aumentare i tassi, ma le mosse della Fed sono costantemente monitorate. Quest’anno, poi, entrerà in vigore il bando sull’export di alcuni minerali, per cui il deficit commerciale è destinato ad aumentare. I disordini sociali, nati dalla decisione del governo di tagliare i sussidi per il carburante, sono un ulteriore elemento di destabilizzazione.

SUDAFRICA

Anche in Sudafrica sono le tensioni interne – come il lungo sciopero dei lavoratori nelle miniere di platino, che chiedono il raddoppio dei salari – ad erodere la fiducia degli investitori, oltre all’eccessiva dipendenza dalla domanda cinese di materie prime. Gli effetti del tapering, poi, si sono visti anche a Pretoria, il rand è crollato rispetto al dollaro, tanto che anche il governatore della banca centrale sudafricana ha deciso di aumentare il tasso di interesse, portandolo al 5,5 per cento.

ARGENTINA

La situazione più difficile resta quella dell’Argentina, che non rientra nella categoria dei Fragile Five solo perché l’aggettivo fragile non ha caratura sufficiente a connotare la realtà. L’inflazione nel 2013 ha raggiunto il 25 per cento, anche se i dati ufficiali, artificialmente manipolati, descrivevano una realtà meno cupa (10,9 per cento). La presidenta Cristina Kirchner ha introdotto controlli sulla moneta (persino sugli acquisti on line), ma le riserve di dollari in mano alla banca centrale (necessarie per pagare i debiti) sono passate dai 52 miliardi nel 2011 ai 29 miliardi di oggi e la banca centrale non riesce a bloccare la fuga di liquidità.

RUSSIA

Anche la Russia non sembra essere un Paese per investitori, considerato che l’outflow di capitali nel 2013 è stato di 62,7 miliardi di dollari (contro i 54,6 del 2012). Uno Stato di diritto debole e un’economia troppo dipendente dalle materie prime, con un settore manifatturiero obsoleto, non sono certo motivi di attrazione. In Thailandia, invece, oltre all’effetto Fed, occorre tenere conto delle tensioni politiche, in un Paese spaccato nettamente in due fronti. L’opposizione, dopo avere snobbato le recenti elezioni, ha lanciato una campagna di boicottaggio delle aziende legate al clan Shinawatra – Yingluck, la sorella del magnate Thaksin, è l’attuale premier – che in Borsa hanno perso addirittura 2 miliardi di dollari. Il turismo, una delle principali fonti di reddito, ha rallentato la sua corsa, nel 2013 il baht ha raggiunto i minimi degli ultimi 3 anni nei confronti del dollaro e la fuga di capitali, secondo alcuni analisti, dovrebbe proseguire, malgrado le rassicurazioni della banca centrale. Persino la Nigeria, che negli ultimi è stata il paradigma della crescita economica in Africa, sta vivendo forti tensioni. Il presidente Goodluck Jonathan ha sospeso il governatore della Banca Centrale, Lamido Sanusi, piuttosto stimato dalla comunità finanziaria, che aveva accusato di frode la compagnia petrolifera di proprietà del governo. La moneta locale, la naira, è ai minimi dal 1999, il tapering si è fatto sentire anche ad Abuja e l’economia resta troppo dipendente dall’export di materie prime, soprattutto verso la Cina.

L’inventore dei Brics, l’ex capo economista di Goldman Sachs Jim O’Neill, continua a difendere la propria creatura. “Rappresentano ancora le migliori opportunità di investimento del pianeta”, ripete. Ma quando l’acronimo venne coniato, il flusso di capitale verso i mercati emergenti era di 190 miliardi di dollari l’anno. Oggi l’unico tra i Brics a non conoscere l’outflow è la Cina. Gli analisi sottolineano alcuni vantaggi di Pechino. La stabilità politica, anzitutto. Un sistema educativo in continuo progresso. Una forza lavoro formata in maniera sempre più adeguata. Secondo Ma Jun, capo economista per la Cina di Deutsche Bank, i fondamentali cinesi sono nettamente superiori a quelli degli altri mercati emergenti (malgrado si parli da tempo di una bolla immobiliare). E Pechino è molto meno vulnerabile al tapering americano.

C’è un indice, il MSCI Emerging Markets, che misura le performance dei Paesi emergenti. A gennaio è calato del 6,6 per cento. I capitali tornano in Occidente, cercano valore nell’Europa periferica, quella dei Piigs. Al momento il denaro viene investito soprattutto nelle Borse e nei titoli pubblici dell’Eurozona, che sembra avere superato il rischio di frattura. Secondo il Wall Street Journal da inizio gennaio sono stati riversati nel Vecchio Continente, in azioni, più di 24 miliardi di dollari. Persino George Soros, in un’intervista a Der Spiegel, ha dichiarato che il suo Management Fund sta considerando l’ipotesi di investire ad Atene.