Tre lettere. La crisi ucraina si chiama gas. E non solo perché la Russia ha minacciato di tagliare nuovamente le forniture a Kiev, come già fece nel 2006 e 2009, prima che Mosca trovasse un’intesa con l’allora premier Julia Tymoshenko. Ma soprattutto perché l’Ucraina è una delle frontiere più promettenti del mercato europeo dell’energia.
Nello scorso novembre, proprio mentre veniva negoziato il trattato di associazione con la Ue – quello buttato al macero dall’ex presidente Viktor Yanukovich, con conseguente innesco della rivolta – Kiev stipulò un accordo con l’americana Chevron per promuovere una serie di esplorazioni e avviare la produzione di gas di scisto nel giacimento di Oleska, 6.300 chilometri quadrati, nella parte occidentale del Paese. Il valore potenziale dell’intesa veniva stimato in circa dieci miliardi di dollari. A gennaio 2013 la Royal Dutch Shell aveva firmato un protocollo simile, relativo al campo di Yuzivska, 8000 chilometri quadrati, nell’Est dell’Ucraina.
Non c’e solo lo scisto. Kiev è da tempo in trattativa con un consorzio guidato da un’altra major americana, la ExxonMobil, per stipulare un production-sharing agreement (psa) volto all’esplorazione di un giacimento off shore davanti alla costa occidentale del Mar Nero, vicino al cosiddetto Blocco di Nettuno, gestito dalla Romania, in cui la stessa Exxon e l’austriaca Omv nel 2012 scoprirono grandi riserve di gas. Colloqui analoghi vanno avanti da tempo con un altro gruppo, formato dall’Eni e dalla francese Edf, allo scopo di sviluppare un giacimento nel Mar Nero, proprio davanti alla Crimea.
I rapporti d’affari con l’Occidente in campo energetico sono di recentissima data. Nella fase “arancione” della repubblica, le major erano rimaste fuori dal mercato ucraino, anche a causa di uno Stato di diritto piuttosto debole e di una legislazione ambientale decisamente incerta. Yanukovich, invece, salito alla presidenza nel 2010, si è dimostrato molto pragmatico da questo punto di vista.
L’industria pesante ucraina, siderurgica e metallurgica, ha bisogno di grandi quantità di energia. Il sessanta per cento delle importazioni di gas viene da Mosca. L’accordo stipulato con la Russia nel 2009, al termine della crisi, ha cambiato il quadro della situazione. I prezzi delle forniture sono diventati molto più alti rispetto a quelli previsti dagli accordi precedenti, nonché più cari in relazione al costo del gas americano (anche se Yanukovich a fine dicembre, dopo avere stracciato l’accordo con la Ue, aveva ottenuto uno sconto da Vladimir Putin).
Mappa della presenza di shale gas di vario tipo in Ucraina (Fonte Unconventional Gas Ukraine)
Questo ha spinto Kiev a cercare alternative. Una shale revolution sarebbe una svolta geopolitica. Ci sono altri due Paesi europei, Polonia e Lituania, dipendenti alla stessa maniera dal gas russo ed alla stessa maniera impegnati nella ricerca di fonti alternative, come il gas di scisto. Varsavia nel 2011 ha rivisto al ribasso le stime relative alle proprie riserve. L’Ucraina, invece, è considerata tutt’oggi al terzo posto in Europa, secondo gli analisti, per giacimenti di shale. Già nel 2011 un report della Us Energy Information Administration, individuò grandi potenzialità di sviluppo nel gas targato Kiev.
Nel 2012 il consumo ucraino di oro blu è stato di 50 miliardi di metri cubi, la produzione domestica di 20. Dal giacimento di Oleska potrebbero uscire 8-10 miliardi di metri cubi annui. Considerando anche il progetto di Yuzivska e quello offshore della ExxonMobil, si potrebbero raggiungere, entro i prossimi dieci anni, i 20 miliardi di metri cubi, raddoppiando la produzione interna e rendendo molto meno indispensabile il gas russo.
E anche se le cifre dovessero poi rivelarsi inferiori alle previsioni – quelle sullo shale sono delle semplici stime – il solo fatto che grandi aziende americane riuscissero a lavorare proficuamente in Ucraina sarebbe una svolta economica, perché Kiev non sarebbe più considerato un ambiente inospitale per gli investitori. Ogni settore dell’imprenditoria nazionale riceverebbe grande slancio dal successo dello shale, rendendo sempre più competitiva l’economia.
Il gas di scisto è dunque un’arma rivoluzionaria, per motivi tanto economici quanto geopolitici. Il boom dello shale americano, ad esempio, ha portato le compagnie energetiche a premere sul Congresso affinché vengano tolti i limiti all’export in Europa di gas a stelle e strisce (limiti che non esistono, ad esempio, per Canada e Messico). Questa campagna è stata rilanciata dai principali giornali americani, dal New York Times al Washington Post, ed è stata ripresa dallo stesso Financial Times. Anche lo speaker della Camera, John Boehner, e l’ex capo della Cia, il generale Petraeus, si sono espressi in questo senso. Se lo shale targato Usa entrasse a far parte dell’armamentario anti-Putin, riducendo la dipendenza europea dal gas russo, per l’Occidente potrebbe essere la mossa del cavallo.