I talebani pakistani hanno stretto un patto con i loro omologhi afghani, in nome di un comune obiettivo: sabotare le elezioni in programma a Kabul. Attacchi sospesi a Islamabad, perché occorre concentrare le forze e far deragliare l’appuntamento del voto di oggi, 5 aprile, giorno in cui l’Afghanistan è chiamato a scegliere il successore di Hamid Karzai.
Un voto storico, a suo modo, sia perché «l’uomo più elegante del mondo», secondo la definizione di Tom Ford – correva l’anno 2002 – esce dalla prima linea dopo dodici anni, sia perché il 2014 è la data entro cui le truppe Nato devono completare il loro ritiro. Rispetto agli esordi della presidenza Obama, quella afghana non è più la guerra giusta o quantomeno necessaria – da contrapporre alla disavventura irachena – ma un problema da rimuovere, un fastidio da mettere al più presto sotto il tappeto. Il “pivot to Asia” dell’amministrazione democratica, lo spostamento verso Oriente delle preoccupazioni geopolitiche, ha altre mire. Non l’ingovernabile “cimitero degli imperi”, ma il Pacifico, teatro del duello con la Cina.
Ora, se è vero che l’Afghanistan non è più la terra di elezione del terrorismo qaedista, ormai in franchising o comunque installato in altre zone del Pianeta – non è possibile liquidare Kabul con un tratto di penna. L’Occidente non può limitarsi a fare le valigie e gli Stati Uniti sono obbligati a mantenere una certa presenza militare, pena il caos. Hamid Karzai, con la consueta manovra da equilibrista, si è rifiutato di firmare l’accordo proposto dagli americani (il Bilateral Security Agreement, che prevede, tra l’altro, l’immunità funzionale per i soldati Usa e il loro diritto a entrare nelle abitazioni private, a caccia di terroristi, in “circostanze straordinarie”).
Il Presidente vuole ritagliarsi un margine d’azione e manovrare dietro le quinte il proprio successore. Non è detto che Karzai riesca a conservare la sua influenza né, d’altronde, il futuro capo di Stato è certo di ricevere un potere pieno e legittimo. Sarebbe sbagliato, però, bollare come inutili queste elezioni. Caroline Wadhams, del clintoniano Center for American Progress, sostiene che «il valore di questa fase di transizione non può essere enfatizzato, ma il fallimento del processo elettorale, con un voto contestato o caotico, avrebbe il potenziale di innescare le violenze e indebolire la coesione delle forze di sicurezza locali».
Un primo dato importante sarà quello dell’affluenza alle urne. L’Afghanistan non può fare a meno dei donatori occidentali, ma la comunità internazionale, dopo avere investito pesantemente a Kabul, esita ad impegnarsi ulteriormente in un Paese in cui la corruzione è moneta corrente, il governo controlla solo alcune porzioni di territorio e la stabilità politica rimane un’utopia. Questo spiega perché i talebani pakistani abbiano optato per la tregua (temporanea) in patria, in modo da spostarsi oltre confine e unirsi al sabotaggio del voto, assieme agli studenti coranici afghani e a un altro gruppo fondamentalista di Islamabad, la rete Haqqani. Il primo effetto è stato l’attentato compiuto lo scorso 21 marzo all’Hotel Serena di Kabul, un albergo piuttosto frequentato dagli occidentali, che ha portato molti osservatori stranieri, tra cui quelli dell’Osce, a fare le valigie.
Già le elezioni del 2009 furono segnate dai brogli e il rivale di Karzai, Abdullah Abdullah, si ritirò alla vigilia dal ballottaggio, anche se probabilmente l’elegante presidente, su cui l’Occidente aveva scommesso dopo la cacciata dei talebani, avrebbe vinto comunque. Abdullah è oggi uno dei tre favoriti assieme a Zalmai Rassoul e Ashraf Ghani. A prevalere è ancora una demarcazione di ordine etnico. L’Afghanistan è un puzzle di etnie. I pashtun sono il 42 per cento della popolazione, i tagiki il 27, gli uzbeki e gli hazari il 9. Il ballottaggio è un’ipotesi molto concreta e il vincitore sarà colui che si rivelerà capace di danzare sui fragili equilibri tra le varie comunità.
Nessuno dei concorrenti ha il pieno sostegno dei quattro maggiori gruppi, quantomeno al primo turno, anche se molti di loro hanno scelto come candidati alla vicepresidenza personaggi di etnie diverse, in modo da allargare il consenso. Abdullah, malgrado sia per metà pashtun, è considerato un rappresentante dei tagiki, ed è l’erede del leggendario leader anti-sovietico Ahamd Shah Massoud, il “leone del Panjshir”, ucciso dai fondamentalisti islamici alla vigilia dell’11 settembre. Al suo fianco corre Mohammed Mohaqiq, uomo forte degli hazari (che in proporzione votano in maggior numero rispetto alle altre comunità). Ghani, ex ministro delle Finanze, ex funzionario della Banca Mondiale, apprezzato in Occidente, è un pashtun e gode del sostegno degli uzbeki, grazie al potente signore della guerra Abdul Rashid Dostum. Rassoul, anch’egli pashtun, è, a quanto pare, il personaggio più vicino a Karzai. Il presidente in carica ha convinto il fratello Qayum a ritirarsi dalla competizione per convergere i voti del gruppo maggioritario verso un solo candidato, che lui ritiene di potere controllare.
La vera battaglia sarà quella del ballottaggio, sostengono convinti gli analisti. Se i non pashtun votassero in massa per Abdullah, questi avrebbe grandi possibilità, anche se il conflitto tra la comunità più numerosa e quelle rivali si infiammerebbe ancora di più. Se il ballottaggio fosse tra Abdullah e Rassoul, il candidato dei tagiki avrebbe vita ancora più facile, si dice, perché gli uzbeki potrebbero schierarsi con lui, anche se gli uomini di Karzai controllano ancora la macchina elettorale e, in fatto di trasparenza, i precedenti non sono incoraggianti. Abdullah si è schierato a favore dell’accordo preparato dagli americani, promettendo di firmarlo nel giro di un mese, nel caso in cui fosse eletto alla presidenza.
Tutte queste alchimie politiche dimostrano come il voto in Afghanistan sia più un fatto comunitario che un diritto individuale. La democrazia è a uno stadio a dir poco embrionale e nelle zone controllate dai talebani scegliere di marcare il proprio dito con l’inchiostro è una sfida rischiosa. Le foto delle agenzie di stampa internazionali hanno immortalato i seguitissimi comizi delle ultime settimane, scene impensabili in epoca talebana, ma la legittimità del potere resta debole e contestata, abbondano i seggi fantasma e in alcune aree il numero delle tessere è superiore a quello degli elettori registrati.
Da molti punti di vista, rispetto ai tempi del mullah Omar e di Osama Bin Laden, sembra passata un’era geologica. Nel 2001 nessuna ragazza poteva andare a scuola e i maschi istruiti erano appena un milione, su una popolazione di trentuno. Adesso, secondo i dati della Banca Mondiale, l’educazione è garantita a 7,8 milioni di persone, di cui circa 3 milioni di sesso femminile. Le donne, prima escluse dalla vita comunitaria, sono entrate nel mercato del lavoro, soprattutto in ambito governativo – persino nella polizia e nel l’esercito – e si prevede che il loro tasso di occupazione raggiungerà il 40 per cento nel 2020. L’aspettativa di vita è cresciuta fino a 60 anni, la mortalità infantile è diminuita in maniera sensibile, l’accesso all’acqua potabile è passato dal 4,8 per cento del 2001 al 60,6 per cento del 2011.
Certo, le differenze tra le aree urbane e quelle rurali restano notevoli, un terzo della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il Pil pro capite è più basso rispetto a Bangladesh e Sri Lanka, l’elettricità ancora scarseggia e il tasso di abbandono delle scuole, soprattutto di quelle superiori, è piuttosto elevato. L’economia è prevalentemente agricola e il prodotto più coltivato, malgrado gli sforzi dell’Occidente, rimane l’oppio. Difficile per i contadini abbandonare un’attività tanto remunerativa, in tempi di prezzi così alti. Il sottosuolo afghano contiene grandi quantità di commodities come petrolio e rame – che fanno gola ai cinesi, ad esempio – ma la cronica instabilità del Paese ha sinora frenato gli investimenti.
Il passaggio dai bulletts ai ballots, dalla legittimità fondata sulle armi a quella basata sul voto, è faticosa, ma reale. Per la prima volta non si parla più di un candidato degli americani. Al limite, ci si chiede quale sia il favorito di Karzai. I signori della guerra manterranno il loro potere, il futuro presidente sarà forse, come dicono molti critici, il “sindaco di Kabul” e, sabotaggio o no, i talebani resteranno un fattore anche dopo il 5 aprile, tanto che lo stesso Karzai aveva iniziato a trattare con loro, a volte apertamente, a volte in maniera più nascosta. Ma l’orologio della storia non può tornare indietro, perché significherebbe che l’Occidente, in Asia centrale, ha solo perso tempo e risorse.
Le foto della preparazione dei seggi sono di Getty Images