Capire i populismi europei

Capire i populismi europei

Il pericolo dell’estrema destra è uno degli argomenti chiave di questa campagna elettorale per le europee. Estrema destra, a vedere la mappa dei movimenti che qua e là emergono sotto questa etichetta, rischia però di dire tutto e niente. Andrea Mammone è un ricercatore italiano che insegna alla Royal Holloway University di Londra. Nei suoi studi e nelle sue pubblicazioni il tema dell’ascesa dei far right parties in occidente è centrale. Ne scrive spesso sulla stampa anglosassone. E si è fatto l’idea che in questa destra così alta nei sondaggi non ci sia «granché di nuovo». Ai nemici canonici (vedi lo straniero) ha affiancato una contestazione più forte nei confronti dell’Ue. E in termini elettorali ha fatto un affare. Ma, per Mammone, la vera forza del messaggio radicale sta nella debolezza dei partiti tradizionali che «non offrono una visione» alternativa ai cittadini europei economicamente impoveriti e ideologicamente disorientati. Che si affidano dunque a un messaggio che tende a rassicurare anche senza dare risposte sempre plausibili.

«Prima però sgomberiamo il campo da un problema di definizione – ci spiega -. Perché di questi tempi quando si parla di estrema destra si parla anche di populismo, ma questo confonde le acque. Quella di populismo è una definizione larga, porosa, si può applicare alla destra, al centro o alla sinistra. Parlare di populismo è diventato di uso frequente e non è nemmeno rigettato dagli stessi protagonisti del discorso: dire populismo infatti è meno pericoloso, più accettabile dell’etichetta di estremista».

Quindi che cos’è, professor Mammone, questa estrema destra che si presenta così forte alle europee?
«Quello che unisce tutti questi movimenti, dalla Le Pen ad Alba Dorata, è un tentativo di difendere un concetto abbastanza chiuso di comunità, di gruppo. A livello di idee: contro l’Europa, per esempio. O di valori: per la patria. O come rivendicazione etno-regionalista: vediamo la Lega in Italia, il cui programma è ormai di estrema destra, o lo Vlaams Belang in Belgio. C’è insomma, in tutti questi movimenti, il rigetto del differente, che è tipico della destra: un’identità esiste anche perché c’è un nemico esterno comune, che può essere l’immigrato, possono essere le banche, può essere ora la burocrazia di Bruxelles».

Lei che ha mappato questi movimenti, ci spiega che cosa sta emergendo di nuovo da questa parte dello scenario politico?
«Di nuovo, non vedo niente. C’è un filo storico da seguire. Fino agli anni Ottanta, il movimento neofascista leader in Europa era il Msi. Poi sono iniziati i successi del Front National in Francia, tutti hanno iniziato ad agganciarsi a Jean-Marie Le Pen. Dagli anni Novanta c’è stata una crescita costante di questi movimenti, non dimentichiamoci che lo stesso Le Pen è andato al ballottaggio alle elezioni presidenziali francesi. Direi che di nuovo nuovo non c’è niente: hanno usato e usano la paura degli immigrati o dell’islam, ora utilizzano l’anti-europeismo».

Se c’è dunque qualcosa di nuovo è la voce grossa contro l’Europa. Che Europa vogliono all’estrema destra?
«Un’Europa diversa sulla base di un europeismo di destra che affonda le sue radici già in alcune correnti del fascismo italiano fra le due guerre e nel Movimento sociale europeo che negli anni Cinquanta si formò proprio per dare un’idea alternativa di Europa mentre iniziava l’integrazione comunitaria. Rispetto ad allora, assistiamo a un adattamento rispetto ai tempi ma con dei punti cardine: l’estrema destra vuole un’Europa delle nazioni o attraverso un’integrazione senza Bruxelles o attraverso la fratellanza delle forze di destra».

Perché oggi in Paesi così diversi fra loro questi movimenti raccolgono così ampi consensi?
«Sono attraenti perchè vanno molto male gli altri. L’immagine dell’Ue oggi, non solo nel sud dell’Europa, non è vincente. È l’immagine di un’Europa che non ha autorità, che crea molte difficoltà per esempio al popolo greco. L’Europa stessa non riesce neanche a proiettare un’immagine positiva di quello che riesce a fare».

Quindi ne approfittano?
«Non è che ne approfittano, basta girare per strada nelle città europee e sentire la gente che dice che si stava meglio prima dell’euro. E movimenti come quello di Grillo o partiti di estrema destra che dicono di tornare indietro a prima dell’euro danno una (loro) risposta. È evidente l’inefficienza totale del centrosinistra in Europa, perchè non riesce a dare una visione alternativa dell’Europa. In parte perché ha condiviso le politiche di questi anni, in parte perché avendo abbracciato troppo il neo-liberismo ha difficoltà a essere veramente europeista. Il centrosinistra in Europa ha difficoltà a parlare con la gente comune e chi lo riesce a fare sono le forze populiste o di estrema destra. Le forze politiche tradizionali non riescono a dare reale protezione ai cittadini bastonati dall’austerità. Queste forze invece, anche se in maniera demagogica, riescono a dare una loro visione, una visione che presuppone continui nemici (’non ho lavoro per colpa degli immigrati’) ma comunque una visione: non hanno il copyright dell’anti-europeismo, ma sono state bravissime a saltare sul carro giusto in assenza di grossi dibattiti sulla stampa europea a proposito del futuro dell’Europa da parte dei maggiori partiti di centrodestra e di centrosinistra».

È curioso sentire come molti di questi leader critici con l’Europa dicano di rappresentare le ragioni del “senso comune”. Presentano la sfida all’Ue come una di rivincita del buonsenso.
«Eh sì, anche qui direi che forse manca l’appeal del vero buonsenso da parte degli altri. Alcuni discorsi di Marine Le Pen, al netto della visione xenofoba del suo movimento, potrebbero essere fatti da chiunque altro. Non sono d’accordo con quei miei colleghi che pensano che il fattore economico non sia decisivo nell’orientamento elettorale: con meno soldi in banca e meno lavoro è più facile votare estrema destra, anche per chi estremista non è. Poi che questo voto porti anche delle risposte concrete è tutto un altro discorso».

Ecco, questa è una delle critiche che si sentono maggiormente. Poi ce n’è un’altra: questi movimenti “contro” non riusciranno mai a fare un fronte comune all’Europarlamento. È d’accordo?
«Penso che se prendessero tanti voti, riuscirebbero a mettersi insieme, perché avere un gruppo unito, forte e con finanziamenti può contribuire a ridurre alcune divisioni. Certo, finora a livello istituzionale si sono divisi per divergenze, personalismi, anche per xenofobie incrociate. Ma se riusciranno a prendere un sacco di seggi, potrebbero avere la grande occasione di provare a distruggere l’Europa dal di dentro, che è un paradosso. E questo potrebbe dare uno scossone alle forze tradizionali: non conviene a nessuno avere un Parlamento europeo semi-bloccato».

Uniti contro l’Europa. Al sud si contesta l’austerità. Ma perché anche nel nord Europa, in paesi come la Danimarca dove gli anti-Ue sono in vantaggio, è così forte questa critica all’Unione?
«Se i Paesi del Sud hanno l’immagine di un Nord austero, a nord percepiscono il Sud come quello che, attraverso Bruxelles, sperpera il denaro di tutti. Questa immagine non cambierà finché non la cambierà questa Europa a trazione tedesca. Se c’è un voto anti-Europa al nord, al centro e al sud, qualcosa ci sarà da fare! Poi c’è un secondo tema, c’è l’idea che Bruxelles abbia un’ingerenza troppo forte nelle politiche nazionali. Infine, bisogna considerare che i Paesi nordici in particolare hanno un grande sistema di welfare e percepiscono l’immigrazione più elevata dei numeri reali: pensano che più immigrati significhi insostenibili costi sociali».
A livello accademico questi temi come vengono trattati?
«A livello internazionale si scrivono molti libri sull’Europa di oggi, sull’Europa che non funziona. Ma ancora pochissimo a livello accademico».

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