Casa Susanna, un posto dove essere sé stessi

Casa Susanna, un posto dove essere sé stessi

«Scena: il portico di fronte all’edificio principale del nostro resort nelle Catskill Mountains. Ora: circa le quattro del mattino, il Labor Day sta per sorgere oltre l’oscurità distante. Personaggi: quattro ragazze che chiacchierano. È buio. Solo un fascio di luce illumina parte della proprietà a intervalli regolari – fa magari un po’ freddo a quasi mille metri d’altitudine. Ogni tanto una fiamma in punta di sigaretta illumina un volto femminile – un altro weekend al resort, ore in cui impariamo a conoscere noi stessi un po’ meglio osservando la nostra immagine riflessa in nuovi colori e in una nuova prospettiva attraverso le vite dei nostri amici». Questa è più o meno la sintesi di cosa doveva essere Casa Susanna. A scrivere era Tito Valenti, all’anagrafe, ma che nel fine settimana si trasformava in Susanna – appunto – e le colonne erano quelle di Transvestia, da qualche parte nei primi anni Settanta.

Un passo indietro: Robert Swope, un punk-rocker e mobiliere di New York City trova un centinaio di scatti in una scatola comprata a un mercatino delle pulci. Sono uomini travestiti da donne, ma non come ci si immaginerebbe ora. Sono le pose familiari e composte di donne sofisticate, che bevono tè, giocano a bridge, guardano l’obbiettivo con stupore sincero e un velo di imbarazzo. Sono editori, vigili del fuoco, imprenditori, almeno uno sceriffo di una piccola contea nel New Jersey. L’ambiente e la qualità delle fotografie è quella della fine degli anni Sessanta, ma i vestiti e le acconciature, persino gli sguardi, appartengono a una decina di anni prima. Swope non sa niente di cosa sia Casa Susanna, salvo quello che vede: uomini vestiti da donne, bellissimi e rassicuranti. Sereni, in alcuni casi gioiosi. Niente di vistoso, nessuna Drag Queen coperta di strass che disegna il labiale attorno a una canzone di Diana Ross. Qualcosa di più simile alle foto di famiglia, una cena per un’occasione speciale, una festa dove andare vestiti bene, una serie di baci sulle guance e parole gentili, un pic-nic sull’erba. Gesti abituati, cortesi, misurati.

Swope non ne sa niente e a lungo non vuole saperne niente. Assieme al suo compagno, Michel Hurst, mette insieme le foto e ne fa un libro – intitolato Casa Susanna e uscito negli Stati Uniti nel 2005, per powerHouse – lasciando a loro l’onere di raccontare una storia che gli stessi autori cominciano a conoscere solo dopo la pubblicazione, quando le testimonianze dei frequentatori di Casa Susanna prendono a ricongiungersi sulle immagini.

Il complesso di edifici, in posizione isolata nel territorio di Hunter, New York – per un periodo conosciuto come Chevalier d’Eon resort – era un posto sicuro per molti che sentivano la necessità di evadere, dai propri vestiti come dalla propria pelle, e se lo concedevano per qualche giorno a settimana, in risposta a una società che ancora non dava appigli né certezze. Felicity, Gail, Fiona, Cynthia, erano i nomi che avevano scelto per loro, e che alcuni di loro hanno poi adottato per l’avvenire. Si trattava per alcuni di un problema di presa di coscienza, per altri di insoddisfazione velata.

Casa Susanna era un posto eccitante – ha raccontato Sandy, un imprenditore divorziato, a Robert Hill, ricercatore dell’università del Michigan che una decina di anni fa si è occupato di rimettere assieme i bandoli delle matasse di storie che giravano attorno alle foto di Swope. «Perché quali che fossero le tue fantasie segrete, incontravi altre persone che ne avevano di simili e ti accorgevi di essere, sì, “diverso” ma non “pazzo”». Sandy oggi ha più di settant’anni e non si traveste da diverse decadi. Negli anni Sessanta era uno studente universitario e nei weekend frequentava Casa Susanna. «Era estremamente liberatorio. Sono cresciuto in una famiglia molto conservatrice. Volevo sposarmi, avere una casa, un’auto, un cane. Cose che alla fine sono successe. Ma allora avevo questi impulsi conflittuali e non sapevo da che parte voltarmi. Non sapevo quale fosse il mio posto nel mondo».

Katherine Cummings a Casa Susanna si faceva chiamare Fiona ma era nata John. Ha vissuto da transessuale a Sidney per il resto della sua vita, fatto la libraia e l’editrice, e raccontato di quegli anni in un libro di qualche anno fa, intitolato Katherine’s Diary. «Mi ricordo di Libby – scrive – era molto bella ma contemporaneamente era Lee, un macho. Ogni tanto alcuni cacciatori si fermavano al resort e rimanevano a parlare per ore con lei di fucili e armi da fuoco. Era due cose assieme e le portava entrambe con disinvoltura». Quello che gli ospiti della casa facevano per la maggior parte del tempo era parlare. Parlavano e parlavano, e sembrava avessero sempre qualcosa da dirsi, parlavano di quello che facevano durante il resto della settimana e poco importava il fatto di dover cambiare il genere agli aggettivi. Il significato di Casa Susanna non stava tanto in uno nell’altro aspetto dei suoi ospiti, in cosa fossero di notte e cosa di giorno, ma nel poter convivere con la propria dualità e non doverla definire mai “ambigua”. Essere due nel corpo di uno o soltanto uno alla volta, senza restrizioni, senza obblighi. Senza segreti.

Il ricordo di Casa Susanna, dei suoi weekend e delle sue feste declina e si perde nella memoria dei suoi ospiti, ma li segue per gli anni a venire attraverso le scelte della vita, che poi per la maggior parte di loro si riducono a un unico enorme bivio. C’era Virginia Prince, farmacista, fondatrice di Transvestia e del movimento transgender. «Ho inventato i trans – rideva ancora a novantasei anni, poco tempo prima di morire – ma se questa gente sapesse che non mi sono mai operata mi farebbe la pelle». E infine c’era Tito Valenti, Susanna, che ha scelto di spendere il resto della propria vita da donna.

Tutte le foto compaiono per gentile concessione di powerHouse Books, NYC

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