Gli effetti speciali sono finiti, resta la crudeltà dei numeri, quelli del Def (Documento di economia e finanza). L’unica misura certa è la riduzione dell’Irpef sulle retribuzioni medio-basse (i celebri 80 euro in busta paga), anche se non si sa ancora come avverrà. Si tratta di 6,7 miliardi quest’anno e 10 miliardi nel 2015. Il buco nelle entrate verrà coperto con 4,5 miliardi di spending review da confermare ancora nei dettagli e 2,2 miliardi da aumenti delle imposte sulle banche e sugli utili da titoli finanziari (esclusi quelli di Stato). L’anno prossimo si vedrà.
Sulle (parziali) privatizzazioni c’è una stima di 12 miliardi quest’anno. Secondo il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan si tratta solo di quote delle Poste, delle Ferrovie, dell’Enav, società non quotate alle quali attualmente è difficile dare un valore di mercato, per vendere le quali ci vorrà tempo. Le pubbliche amministrazioni pagheranno 13 miliardi dei loro debiti, ma questo non c’entra con le coperture del taglio Irpef, semmai con lo stimolo alla crescita (zero per quest’anno, appena 0,3 dal 2015), e anche qui bisognerà fare chiarezza sui numeri sparati in precedenza. Quanto alle riforme sociali, non c’è ancora nulla nero su bianco a cominciare dalla più controversa e più importante (anche a giudizio dell’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale), cioè la riforma del lavoro. Aspettiamo Giuliano Poletti.
Quale sarà l’impatto delle misure annunciate sul prodotto interno lordo? Nell’insieme uno 0,3% in più quest’anno e 0,8 l’anno prossimo. L’occupazione dovrebbe salire rispettivamente di due e di quattro decimali. Insomma siamo intrappolati nell’universo dello zero virgola, mentre altri Paesi viaggiano tra l’uno e il due per cento (con gli Stati Uniti ormai al tre) secondo le ultime stime del Fondo monetario internazionale. Possiamo dire che il governo Renzi mette le vele al venti della crescita che spira dal resto del mondo, ma di suo aggiunge poco o nulla. Come mai?
La spiegazione si trova in un’altra tabella, quella sul debito pubblico. Contrariamente alle attese, alimentate anche dal governo Letta, il debito sul prodotto lordo salirà ancora al 134,9% quest’anno e la crescita proseguirà, anche se a passo più ridotto, nel 2015 e nel 2016, cioè proprio negli anni in cui dovremo cominciare ad applicare le regole del fiscal compact. Ricordiamolo, si tratta di portare il debito sul pil al 60% in un ventennio, quindi occorre tagliare dal prossimo anno ben 75,2 punti a scalare, pari alla differenza tra il livello attuale e l’obiettivo. Secondo un semplice calcolo matematico ricordato da Ignazio Visco, se avessimo un debito del 120% e una crescita monetaria di tre punti, scatterebbe il pilota automatico. In tal caso, dovremmo tagliare 15 punti di Pil e aumentare il prodotto lordo reale di un punto se l’inflazione resta all’un per cento. Insomma, non ce la facciamo. L’Italia sarà costretta a chiedere il rinvio. E tutto questo è già scritto nel Def.
Lo scostamento dagli obiettivi di finanza pubblica, infatti, attiva la procedura prevista dall’autolesionistico articolo 81 della Costituzione. Il governo deve presentare una relazione al Parlamento per spiegare gli eventi eccezionali che lo hanno costretto a sforare, ma prima deve convincere la commissione dell’Unione europea. La relazione, con il piano di rientro, va approvata da ciascuna delle due camere con maggioranza assoluta. E sono guai. Tanto più se guardiamo a quel che sta accadendo sulla riforma del Senato dentro il Pd. Il paradosso, dunque, è che il governo può essere messo in crisi dalla sinistra con motivazioni di destra (il rigore nel bilancio pubblico). O da destra con motivazioni che contraddicono le sue posizioni euroscettiche (o eurocritiche). Ma, come si sa, al di là dei contenuti, quel che conta è l’obiettivo politico.
La partita con la Ue si giocherà ormai con la commissione uscita dalle elezioni di maggio. Ma è improbabile che il voto segni uno spostamento a sinistra, visto anche quel che è accaduto in Francia o l’esito deludente per la socialdemocrazia tedesca. Quindi, può darsi che vengano eletti e nominati uomini meno inclini all’austerità teutonica, magari più sensibili al buon senso degli americani e del Fondo monetario, tuttavia non ci sarà nessun rovesciamento del senso comune europeista. E il negoziato per rinviare il fiscal compact rischia di trasformarsi in un isolamento sullo scacchiere europeo che può far scattare la trappola domestica.
Renzi direbbe che stiamo facendo i gufi, perché il pessimismo della ragione viene a turbare l’ottimismo della sua volontà. Ma siamo sicuri che, abbandonata la propaganda nella quale è maestro, egli stesso vede chiaramente le trappole disseminate sul cammino. La sua tattica è chiara: primum vincere (alle elezioni europee) e per questo lo aiuta il bonus fiscale. Poi trattare da posizioni di forza. Non resta che attendere un mese per vedere se avrà vinto la scommessa.