C’era un’aria frizzante, il mattino di quel dodici aprile, ma il pilota Yuri non ci badò più di tanto, stretto nella sua tuta da marziano e concentrato ai comandi della minuscola navicella. Era il 1961 e quel giorno Gagarin fu il primo a guardare il mondo da un oblò, vedendo il blu del pianeta Terra e il nero di tutto il resto. Centootto minuti appena, che segnarono per sempre la storia dell’uomo, in tempo per tornare alla base e prendere un caffè, che era quasi ora di colazione.
NELLO SPAZIO NON C’È SPAZIO
«È ora, comandante, è ora di andare.»
Yuri si stiracchiò, alzandosi dalla poltrona, sbadigliò coprendosi la bocca con i palmi di entrambe le mani e si guardò un po’ in giro.
«Ora di che? – Bofonchiò – E che ora è?»
«Le otto, comandante, sono le otto e il conto alla rovescia segna meno sessantasette minuti…»
Cosa vuoi che siano sessantasette minuti nella storia dell’umanità – pensava Yuri tra sé e sé – o dal Big Bang fino ad allora: tredici miliardi di anni, se non di più, contro sessantasette minuti appena, una cosa tipo un ventiquattresimo di un trecentosessantacinquesimo di tredici miliardesimi che, calcolando a mente, doveva fare più o meno un centobiliardesimo della storia dell’universo, che era un numero che probabilmente nemmeno esisteva, ma lui era il comandante e poteva fare, pensare e calcolare quello che gli pareva.
«Si accomodi nella nave spaziale, comandante.»
Di nuovo Yuri si guardò intorno, questa volta senza sbadigliare, né stiracchiarsi. In cima a un missile alto così c’era una sorta di grossa lavatrice, con tanto di oblò, assai diversa da ogni cosa potesse far pensare a una nave spaziale.
Si allacciò diligentemente il casco e i guanti e in qualche modo vi si infilò, obbedendo senza discutere, per quanto il comandante fosse lui e gli ordini li avrebbero dovuti eseguire gli altri.
«Comandante di che?! – Brontolò, questa volta a voce alta, ma fuori dal casco non si sentiva nulla… – Che qui dentro ci sono io e basta e non ho nessuno cui comandare!»
«A saperlo mi portavo la biancheria sporca e ne approfittavo per un lavaggio con ammorbidente e centrifuga.»
Ecco, il termine centrifuga ci stava proprio bene, in tutto quel trambusto e l’orbita calcolata per lanciare il comandante nello spazio, fargli fare il giro del mondo e riaccoglierlo dopo un’ora e mezza al punto di partenza, assomigliava in tutto e per tutto a un giro di centrifuga di un paio di mutande o di calzini. Nessuno, però, si sognò pur lontanamente di paragonare il comandante nella lavatrice a punta a qualsiasi indumento intimo, con i pizzi o no.
D’un tratto un boato fece tremare il razzo, inondandolo di fumo e vapori. I motori rombarono, facendosi sentire fin nella steppa, il conto alla rovescia fece tre, due, uno… e il comandante decollò.
«Comandante un corno! – Continuava a brontolare – Qui dentro si sta stretti e scomodi, l’aria è viziata, non c’è nulla da mangiare, non c’è il bagno e nemmeno un giornaletto per passare il tempo. A saperlo rimanevo soldato semplice.»
Non trascorsero, però, che pochi minuti di brontolio, del comandante e del motore, che guardando fuori dall’oblò la Terra cominciava ad apparire lontana, senza la possibilità di riconoscere le vie e le piazze, le città e i paesi: solo le foreste, i deserti, i mari e le terre emerse. Una meraviglia.
«Oh!» Esclamò Yuri, accendendo la radio per comunicare con la base laggiù.
«Oh?!» Si interrogarono i tecnici alla stazione di controllo.
Ancora pochi secondi e l’atmosfera terrestre era ormai alle spalle e lui nello spazio aperto, senza più farsi cruccio della lavatrice angusta e appuntita.
«Oh!» Ripeté Yuri, ammirando l’infinito.
«Oh?! – Continuavano a interrogarsi i tecnici – Comandante, comandante, tutto bene? Quanto fa tre per cinque? Come si chiama il suo gatto? Vuole essere più preciso sulla situazione del volo orbitale?!» Ma che ne sapevano, i tecnici, di come si stava lassù?
«La Terra è blu.» Scandì bene Yuri e giù tutti a trascrivere, in stampatello o con la macchina per scrivere.
«Il cielo è nero.» Continuò, sempre badando alla pronuncia corretta.
«Peccato solo – concluse – non vedere la Luna.»
Non servì dire altro, durante quell’avventuroso primo viaggio spaziale: il comandante Yuri fu accolto al ritorno con trombe e tromboni, coriandoli e mazzi di rose, medaglie e pacche sulle spalle.
Non subito, però. Pare che quando la lavatrice spaziale cadde in un campo di grano, i contadini spaventati abbiano chiamato la polizia che, accorsa a sirene spiegate si avvicinò a quell’uomo con il casco intimando:
«Patente e libretto!» E non è detto che alla fine non gli fecero un verbale per divieto di sosta, o per divieto di transito, o per aver calpestato il grano, o per non aver visto la Luna lassù. Lui non ci badò e, sgusciando dal suo veicolo, l’unica cosa che borbottò fu:
«Nello spazio, cari miei, non c’è spazio!»
Dal 1961 il giorno dodici di aprile è festa nazionale per tutta la Russia, per ricordare brindando il volo orbitale di Yuri Gagarin e della sua navicella Vostok. Nel resto del mondo, invece resta un giorno come gli altri, a parte quando cade di domenica, nel qual caso si dorme un po’ di più. Ma non sarà mica un caso se esattamente vent’anni dopo, il dodici aprile del 1981, la NASA si fece un baffo del giorno di festa e lanciò nello spazio il primo, primissimo Space Shuttle della storia? Non potevano farlo decollare il giorno prima o il giorno dopo? Eh, no, nella corsa allo spazio uno sgarbo così ghiotto non si poteva certo lasciare da parte e per quanto il dodici aprile resti ancora una festa solo di là dei Monti Urali ogni tanto un ghigno, gli yankee, se lo lasciano scappare.
Sono tante le canzoni che parlano di spazio e pianeti, da Luna di Gianni Togni a The dark side of the moon, dei Pink Fluyd, da Rocketman, di Elton John a Guarda che luna, di Fred Buscaglione, fino a Gagarin, di Claudio Baglioni, ma un astronauta vero che canta, fluttuando all’interno della Stazione Spaziale Internazionale, con la Terra laggiù, è qualcosa di unico davvero. Il canadese Chris Hadfield in una delle sue missioni si è portato dietro una chitarra e le note di David Bowie e questo è ciò che ne è uscito.
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Mark Haddon – Boom! – Einaudi
Lo sanno tutti che i marziani esistono davvero. E se non vengono proprio da marte, basta chiamarli extraterrestri e non si sbaglia mai. Il problema è che non si fanno vedere, se ne stanno in mondi lontani, oppure se passano da noi non trovano parcheggio… I ragazzini, protagonisti di questa incredibile avventura ti direbbero più o meno la stessa cosa, se non fossero stati acchiappati da alcuni alieni del pianeta Plonk… Ops! Forse ti sto svelando un po’ troppo e non dovrei dirti che anche a scuola, magari in sala professori… Taccio!
Era tenuto piuttosto segreto, il volo di Yuri Gagarin. Essendo il primo uomo a orbitare intorno alla Terra non si sapeva se sarebbe tornato vivo, o radioattivo, o con quattro orecchie, o così o cosà. Sai che figura se, all’atterraggio della navicella, fosse uscito un astronauta rimpicciolito, alto poco più di un carciofo? Meglio tacere, allora, e annunciare al mondo il primo uomo nello spazio solo quando si sarebbe stati sufficientemente certi che tutto sarebbe andato per il meglio.
Anche Valentina, la bella moglie di Yuri, non sapeva nulla. Quel mattino – pare – il maritino la salutò con il solito bacio in fronte e le disse che sarebbe andato a farsi un giro. Sì, ma c’è giro e giro: c’è quello in bicicletta e c’è quello della città; come poteva immaginare lei, che lui avrebbe fatto il giro completo del globo terracqueo in un’ora e quarantotto minuti appena? Figurati lo stupore quando, mentre rassettava la casa e rifaceva il letto, due colleghi di Gagarin suonarono al campanello per comunicarle con gioia che suo marito stava diventando un eroe nazionale e invitarla a indossare qualcosa di elegante, che bisognava festeggiare…
Il primo uomo sì, ma il primo essere vivente a viaggiare nello spazio no, non fu Yuri Gagarin. Qualche anno prima, nell’autunno del 1957, fu una cagnetta a commuovere il mondo, quando venne lanciata a bordo dello Sputnik II, che era poco più grande di una cuccia, e dasvidania. Si era proprio all’inizio dell’Era Spaziale: il mese prima lo Sputnik fu il primo oggetto creato dall’uomo a orbitare intorno al pianeta. Il passo successivo fu quello di testare la resistenza di un essere vivente e per fare ciò si scelse proprio una cagnetta, che passava di li per caso. La chiamarono dapprima Kudraivka, ma un nome così difficile non era adatto a diventare famoso, quindi si optò per Laika, che fece breccia nei cuori del mondo intero. Poveretta, lei che si sarebbe accontentata di un osso da sgranocchiare, fu imbacuccata per bene e fatta volare lassù, senza alcuna speranza di tornare viva. Mi sarei commosso anch’io…
Se Yuri Gagarin fu il primo uomo nello spazio, due anni dopo fu il turno della prima donna, Valentina Tereshkova, sesto essere umano in assoluto a godersi lo spettacolo della Terra da lassù. Partì a metà giugno del 1963 e rimase oltre l’atmosfera per ben tre giorni, seduta nell’angusta navicella, percorrendo una dopo l’altra una quarantina di orbite. Non fu una missione facile, la sua: provaci tu a stare tra giorni legato a una sedia, senza un metro per fare un passo. Ogni corpo ha le sue esigenze e andare nello spazio non cambia la situazione. Quando atterrò, infatti, la povera Valentina era piuttosto devastata, sporca e pure dolorante. Fu raccolta, lavata, curata e rimessa in sesto e dopo qualche giorno, di nuovo in forma, venne lanciata una seconda volta, solamente per poterla filmare mentre esce, sorridente e inamidata, e saluta noi terrestri.
Dopo di lei passarono quasi vent’anni perché un’altra donna volasse lassù, ma oggi, tra gli astronauti e i cosmonauti, non c’è differenza di genere e maschi e femmine partono e orbitano senza fare a gara gli uni con le altre.
Di sicuro sarebbe piaciuto anche a Gagarin, uscire dalla navicella durante il volo, per farsi una passeggiata nello spazio aperto. O forse non ci pensava per nulla, soddisfatto com’era già della possibilità di volare lassù. Invece chi uscì per primo davvero, fu il cosmonauta Aleksej Leonov, russo pure lui. Fu una passeggiata piuttosto breve, quella che compì nel marzo del 1965: appena pochi minuti, ma la sua missione fu tra le più avventurose nella storia dell’astronautica. La tuta durante la passeggiata cominciò a gonfiarsi, a causa del vuoto assoluto che c’era lì fuori, e per poco Leonov non rimase incastrato fuori dal portellone… E come se ciò non fosse sufficiente, al momento del ritorno sulla Terra, un guasto tecnico fece cadere la navicella talmente distante dal punto stabilito, che lui e il suo compagno di spedizione dovettero aspettare due giorni, prima che qualcuno li andasse a raccattare. Ma bisogna capirli: mica c’era il g.p.s., cinquant’anni fa…