Ieri ad un certo punto ho guardato Luca Casarini vagamente stupito e gli ho chiesto a bruciapelo: «Ma lei quando vede la foto di un ragazzo che rompe una bottiglia e la tira sui poliziotti si sente di poter dire di lui: sta facendo una follia?». L’ex leader delle tute bianche mi ha guardato con un sorriso indecifrabile e mi ha detto: «No». Così io ho continuato: «Quindi quel ragazzo fa bene?». E lui: «Sì. Se pensa che ci sono quattro milioni di persone senza casa in Italia, capirà le ragioni di quella rabbia».
Cito questa opinione espressa a Matrix ieri sera (che io personalmente considero demenziale), non per ridicolizzare Casarini – che tra l’altro umanamente mi è molto simpatico – ma per segnare ancora una volta quanto sia profondo il fossato che divide la sinistra e le sue anime sul tema dirimente della violenza. Rispetto a queste posizioni io avverto il mio omonimo come un marziano, e lui deve provare lo stesso sentimento di incomprensione per me, e per quelli come me.
La manifestazione del 12 aprile a Roma del Movimento di lotta per la casa (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
Casarini torna indietro sulle aperture complesse ma innegabili fatte da Fausto Bertinotti dopo il G8 di Genova, ed è lontano mille miglia dalla pregiudiziale nonviolenta che Nichi Vendola ha postulato come baricentro della riflessione di Sel. L’ex tuta bianca è un uomo intelligente, si porta sul corpo le sue cicatrici, non è più il ragazzino alla capitan Fracassa che Aldo Cazzullo in un articolo del 2001 immortaló in un quadretto memorabile dove il leader della protesta veniva vestito di paramenti di gomma piuma dai suoi scudieri, due giorni prima che morisse Carlo Giuliani. Lo credevo cresciuto, tredici anni dopo, Casarini, anche sul piano della riflessione su questi temi: ma mentre in trasmissione lo sento argomentare in maniera così schematica, mentre dice che lui vuole i numeri identificativi per i poliziotti, ma che difende anche il diritto dei manifestanti ad andare in piazza con i volti travisati e le armi improprie in pugno, mi rendo conto che per lui la difesa dell’indifendibile guerrigliero di strada non è più un problema politico, non è più il prodotto di una riflessione fra alternative possibili, ma un dogma di fede da celebrare con una risposta liturgica.
Visto che mi devo dare una spiegazione, immagino che per Casarini difendere la guerriglia sia un dovere rispetto alla sua storia, il vincolo di amicizia che lo lega al suo mondo, il problema di non rinnegare, il bisogno di non farsi sorprendere dal dubbio, dalle ragioni degli altri, dall’innegabilità fastidiosa dell’evidenza.
La manifestazione del 12 aprile a Roma del Movimento di lotta per la casa (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
Non guardo Casarini dall’alto in basso, non disprezzo in ugual misura tutti quelli che fanno l’apologia del barricaderismo, ma mi rendo conto che l’adesione conformistica al credo del giovane ribelle che si fa scudo della povertà e dei senzatetto per difendere il bisogno ludico–guerrgiero degli arrabbiati, è figlia di un problema anche interiore: quello di mantenere un legame di coerenza con una vita passata, quello di non uccidere il ragazzo che è stato. È questa maledizione che fa di lui un reduce, un quarantenne che su questo punto è molto più vecchio dei cinquantenni come Vendola e dei settantenni come Bertinotti: lo è, se non altri, perché è meno libero di loro.
Mi dispiace per Casarini, perché mi rendo conto che quando dice che «i ragazzi hanno diritto ad assaltare i poliziotti», so che non può farsi una domanda seria su quello che arditamente prova a sostenere, non può esitare: il dogma ribellistico lo fa invecchiare insieme di cinquant’anni e di un secolo, lo fa tornare al Novento e al ’77, come per l’incantssimo di una strega. L’atto di fede un favore del lanciatore di bottiglie rotte fa rientrare Casarini in quella dicotomia splendidamente dipinta da Erri De Luca in Alzaia: «Della mia generazione conosco solo due esiti: inservibili o adeguatisi». Quella di Casarini è una variante karakiri, l’accollamento di un debito generazionale altrui. Non volendo adeguarsi Luca si condanna da solo a diventare inservibile. La politica può avere questo di terribile: anche se ci navighi dentro con le migliori intenzioni può obsoletizzarti in un nanosecondo. La politica, quando si chiude nell’atto di fede, fa diventare ex ragazzo un giovane vecchio, molto prima di farlo diventare un uomo.