La Fiat, il marketing e la battaglia dei cuori infranti

Guerrilla marketing e fedeltà aziendale

“Parking marketing”, lo chiamano. Ma forse è qualcosa di più l’iniziativa di impacchettamento, dolcemente polemico, con cui la Fiat ha colpito nei piazzali le macchine dei suoi dipendenti che non appartenevano a marchi del gruppo, con una azione di rivestimento allo stesso tempo plastico e critico. Sull’involucro trasparente con cui ha incartato le auto straniere, la Fiat ha stampato l’immagine di un cuore rosso infranto e una scritta: “Non spezzarmi il cuore!”. Si tratta, raccontano i dirigenti di Mirafiori, di una campagna promozionale che vorrebbe sensibilizzare all’acquisto di una auto Fiat tutti gli operai e i lavoratori del gruppo: una iniziativa accompagnata, ovviamente, da uno sconto del 27% su tutti i nuovi acquisti. 

Sono molte le implicazioni di questo gesto. In primo luogo storiche: la Fiat di Vittorio Valletta negli anni Cinquanta inibiva l’ingresso ai piazzali di chi non possedeva un modello della casa; quella degli anni Ottanta aveva creato addirittura un mercato parallelo, incentivando con gli sconti le vendite a sei mesi; poi negli ultimi anni la grande disaffezione: libertà e indifferenza, accompagnati da un calo dello sconto aziendale. Oggi, forse, la Fiat pensa a una “reconquista”, tornando a pensare agli 80mila dipendenti come a un mercato privilegiato da coltivare. Dopo i primi incartamenti- a sorpresa – qualche sindacalista ha denunciato il rischio per la privacy, e il sospetto che passato l’effetto pubblicitario si potrebbe essere malvisti per la denuncia della teorica infedeltà.

Sorride (amaro) invece Giorgio Airaudo, ex responsabile auto della Fiom, oggi deputato di Sel: «Non mi turba l’impacchettaggio, ma la fedeltà in una coppia deve essere reciproca. Mi piacerebbe, per esempio – osserva Airaudo – incartare, magari con il Domopack, lo stabilimento abbandonato di Termini Imerese. O quello, oggi in bassissima produzione di Mirafiori». Scherza, invece, la pasionaria di Pomigliano Carmen Abbazia, appena riassunta: «Io ho una Opel vecchia di quindici anni perché quello mi potevo permettere. Guadagno 1.100 euro circa, sono appena uscita dalla cassa integrazione, se mi fanno le rate a venti anni e non mi licenziano compro tutto quello che voglio». 

Però il paradosso è un altro: nessuno ha mai chiesto a un dipendente della De Cecco di non comprare pasta Barilla, o a uno della Rai di non guardare Mediaset: l’auto è sempre di più un simbolo pret á porter, un marchio che si indossa e si esibisce, uno status symbol e una pubblicità permanente. L’auto è più vicino alla bandiera di una squadra di calcio che a uno degli altri consumi: questa campagna di comunicazione non convenzionale ci dice che siamo molto più immersi dentro l’irrazionalita e la mitologia della civiltà dei consumi di quanto non si possa immaginare. 

 

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