La grande fuga dell’industria dalla Borsa italiana

La grande fuga dell’industria dalla Borsa italiana

Anche all’occhio del passante di strada l’Italia appare un Paese deindustrializzato. Con serie difficoltà a reperire capitali e a trovare vie alternative al credito bancario. La Borsa ha subito soprattutto nel comparto industriale una progressiva desertificazione, nel senso di una progressiva uscita da parte di aziende del comparto non finanziario. Abbiamo cercato di valutare l’ultimo decennio e analizzarlo con un po’ di numeri con l’obiettivo di aprire una discussione sulle strade migliori da intraprendere nel prossimo decennio. La leva fiscale è certo una delle più interessanti, ma i tempi per applicarla sono molto stretti. Almeno se si vuole dare gas alla ventata di interessamento da parte degli investitori esteri.

In Piazza Affari dal 2000 a oggi ci sono stati ben 230 delisting, 123 dei quali di società industriali. Più o meno la metà è rimasta sui listini meno di dieci anni e addirittura 18 sono rimaste quotate per meno di tre anni. Tolti i fallimenti o le incorporazioni e calcolando le operazioni iniziate con Opv e finite con Opa, si nota che dei 3 miliardi abbondanti raccolti, praticamente due terzi sono finiti agli azionisti promotori e di fatto quasi niente alle aziende. Non c’è da stupirsi dunque se in Italia il trend di deindustrializzazione sia stato più rapido che altrove. Durante i tempi d’oro si tende a incamerare liquidità e in tempi di crisi non si scommette più su un sistema creditizio alternativo alle banche: la Borsa. Soprattutto perché in nessun modo si è resa appetibile la permanenza sui listini. Illuminante, per capire la situazione negli ultimi anni, è stato lo studio di Mediobanca R&S datato 2010, che abbiamo nei numeri aggiornato a marzo di quest’anno. Facendo un focus sulle società industriali rimaste in Borsa per meno di 10 anni la palma di vera meteora è andata alla Procomac, con un listingdurato dal giugno 2004, quando si è chiusa l’Ipo, al marzo 2005 quando è intervenuta la cancellazione per Opa. Un anno e mezzo sono durate le permanenze della Polynt e dell’Unione Immobiliare, 1,6 anni quella di una delle diverse “Lottomatica” che si sono avvicendate in Borsa. In comune un aspetto: se l’ingresso non avviene per offerta pubblica di sottoscrizione ma per offerta pubblica di vendita il flottante raccolto finisce ai soci che di fatto monetizzano l’investimento iniziale.

«In cinque casi», scriveva circa due anni fa Giuseppe Oddo sul Sole che dai dati di Mediobanca produsse un interessante articolo, «l’ingresso in Borsa è avvenuto integralmente con offerta di vendita: si tratta della privatizzazione di AdR (che è anche l’operazione di maggiore dimensioni del panel, con una raccolta di circa 307 milioni di euro) e poi dei collocamenti di Saeco (215 milioni), Ferretti (153 milioni), Italdesign (140 milioni) e Polynt (128 milioni)». Per esempio i 215 milioni raccolti dagli azionisti Saeco hanno portato in Borsa la società per meno di 4 anni; i 153 milioni dell’Opv Ferretti hanno sostenuto un listingdi appena due anni e mezzo; nel caso di Polynt sono stati raccolti 128 milioni per mantenere in borsa la società esattamente un anno e mezzo. Anche nel caso di Marazzi, la seconda Opv più elevata del campione dopo la privatizzazione AdR (229 milioni di euro), la permanenza in Borsa è stata fugace (2,5 anni).

Nel corso del decennio c’è stata dunque una complessiva predominanza delle uscite rispetto alle quotazioni. Almeno fino al primo semestre dello scorso anno.

Nel 2011 le società revocate sono state, infatti, 14, mentre quelle che sono state collocate sul listino, compresa Fiat Industrial, sono 10, di cui una sola Ipo sul Mta, vale a dire Ferragamo. In termini di raccolta, le Ipo hanno rastrellato sui mercati 587 milioni di euro, a fronte di una raccolta complessiva di 13,1 miliardi. Anche nel 2012 sul mercato principale sono stati più quelli che sono andati che non quelli arrivati. Fatta eccezione per l’Ipo di Brunello Cucinelli, infatti, le operazioni più rilevanti registrate sono stati delisting. Per un importante brand del mondo della moda che ha fatto il suo debutto, un altro ha deciso di abbandonare la scena dopo 25 anni. Si tratta di Benetton. La famiglia, a fine gennaio, ha deciso di lanciare un’offerta pubblica d’acquisto (4,5 euro per azione) sul 25% della società quotato in Borsa tramite la Edizione holding. Altro big a lasciare è stato Buongiorno di Parma attiva nei giochi online. La società (quotata nel 2000) era rimasta, insieme a Tiscali, tra le ultime protagoniste della prima stagione della new economy. Ai tempi d’oro, il titolo aveva addirittura sfiorato quota 20 euro. Il 10 settembre 2012, invece, è toccato a Edison abbandonare le contrattazioni in Piazza Affari. Foro Bonaparte era presente in Borsa dal 1979. Il delisting ha seguito il perfezionamento dell’acquisizione da parte dei francesi di Edf culminato nell’Opa (a 0,89 euro) che ha portato Edf al 98%. Nel 2013 in generale a segnare le tappe delle revoche sono stati però i fallimenti. Ben cinque. Tanti se si pensa che nel decennio precedente sono state solo 8 le aziende uscite per default o per istanze. Ma questo è un altro discorso che esce dall’analisi della piazza finanziaria che abbiamo cercato di fare.

La valutazione dei numeri passati potrebbe per fortuna rimanere confinata alla storia recente dal momento che a partire dal dicembre 2013 il trend è cambiato drasticamente e i combinati disposti che spingevano al delisting si stanno piano piano azzerando (lo raccontiamo in una successiva puntata, ndr). Rendendo di nuovo l’opzione Ipo interessante. Per questo adesso vale la pena prendere spunto dagli oneri di quotazione in relazione ai delisting per capire come in futuro il legislatore possa intervenire per rendere più attrattiva Piazza Affari.

Sempre secondo lo studio di Mediobanca R&S il 4,2% del collocato nel decennio iniziato nel 2000 sarebbe finito in commissioni. Una cifra elevata che raggiungerebbe quasi i 120 milioni di euro. I collocamenti più onerosi prima del 2010, si legge nella ricerca, sono stati quelli di Datamat (7,2%) e Ducati (6,1%), mentre mai si è scesi sotto il 3% di commissioni (Guala e Marazzi). Il totale degli oneri da quotazione risultante dai bilanci societari è stato pari a 80,7 milioni di euro, ossia il 67% delle commissioni complessive. E qui i soldi spesso hanno preso strade diverse rispetto ai frutti dell’Opv. Se il denaro raccolto dai collocamenti più o meno per due terzi è finito ai vecchi azionisti, i costi delle commissioni sono comparsi quasi interamente sui bilanci delle società. Un differenziale pauroso se si considera che nei casi di Ops gli oneri di quotazione in proporzione ai mezzi raccolti hanno prodotto sui bilanci societari un’incidenza media dell’otto per cento, si legge sempre nella ricerca. I costi in termini assoluti non devono però confondere. Sono in linea con le altre piazze finanziarie europee. In termini percentuali invece i valori schizzano verso l’alto per via della dimensione e capitalizzazione media delle aziende italiane. Più basse rispetto a quelle delle colleghe francesi o tedesche. Con l’aggravante che non ci sono le giuste leve di natura fiscale.

«Siamo convinti», spiega a Linkiesta Marco Baga, responsabile investment banking di Banca Profilo, «che il combinato disposto che finora ha stimolato i delisting sia da relegare nel passato. Soprattutto nel 2012 la presenza in Borsa di alcune aziende che si trovavano in uno scenario di crescita settoriale compromesso non era più strategica e al contrario l’uscita appariva molto più conveniente per via dei prezzi. Oneri e i costi non credo siano stati il motivo scatenante per le uscite, perché in linea con le piazze europee. Adesso, almeno dallo scorso dicembre, sta però tornando logico e naturale approcciare Piazza Affari. Ecco perché questo è il momento giusto per intervenire e rendere gli le società più attrattive per gli investitori ». In sostanza in Italia non si può accedere alla leva dei crediti d’imposta, «una novità normativa», aggiunge Baga, «che riuscirebbe al contrario a dare una grande spinta soprattutto alle mid corporate visto che fino a oggi gli investimenti hanno interessato quasi esclusivamente le large corporate ». Generalmente l’assenza di una fiscalità agevolata in Borsa è uno dei motivi per cui gli investitori in Italia acquistano aziende ma non investono in esse. Non mettono denaro nei listini. «Lavorare sui crediti d’imposta», specifica il responsabile investimenti di Banca Profilo, «riuscirebbe a dare anche una scossa alla liquidità che mediamente è molto bassa». Se l’inversione di tendenza iniziata a dicembre si dimostrerà strutturale (ci sono alcune premesse) e non solo opportunistica (investitori che spostano l’interesse su Italia perché Paesi emergenti non più attrattivi) significa che è arrivato il momento per aprire alle Pmi anche i capitali di Borsa. Ciò risolverebbe la grande anomalia italiana. «Il sistema economico nazionale », prosegue Baga, «si è tradizionalmente avvalso di due supporti finanziari: le banche e la dilazione dei pagamenti commerciali. Questo continuo allungamento dei tempi di incasso, anche a 120 e 180 giorni, è uno dei principali fattori di fallimento delle imprese. Con il risultato di rendere quasi totalmente dipendenti le pmi dal settore bancario». Ora che la gamba dello sportello è ingessata si cercano strade alternative, ma secondo Banca Profilo è bene stare attenti a non incappare in errori già fatti. Un esempio, aggiungiamo noi, potrebbe toccare i mini bond che presentano sul lato collocamento molte incognite. A meno che Sace o Cdp avviino strumenti di garanzia in grado di rendere i mini bond appetibili anche agli investitori stranieri. (1.continua)

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