La poetica di Conte e l’ideologia del maggioritario

Solo chi vince è legittimato a parlare?

Io Tarzan-tu Jane, io Antonio Conte tu perdente, e in quanto perdente individuo (o squadra) privata del diritto di cittadinanza. Spesso il calcio diventa metafora di qualcosa di più grande, diventa un terreno simbolico di ratifica, o addirittura di costruzione, del senso conune: e così dopo Napoli-Juventus, senza saperlo, Antonio Conte ci ha dato una lezione di cosa possa (non) essere la sportività.

Rispondendo al presidente del Napoli, Aurelio De Laurentis, che con un pizzico di spacconeria maramalda aveva festeggiato la sua vittoria affermando che con il fatturato della Juventus potrebbe trionfare in campionato per dieci anni, Conte ha costruito un piccolo manifesto di auto-apologia quasi surreale: «Bisogna sottolineare che la lezione di calcio ce l’ha data una squadra che era costruita per vincere lo scudetto e che invece si trova fuori da tutto e a 17 punti da noi. Rispondiamo sul campo – ha detto l’allenatore bianconero – abbiamo vinto. I conti alla mano sono che il Napoli ha speso 100 milioni ed è fuori da Champions, Europa League, a 17 punti dalla prima in classifica, è in finale di Coppa Italia. Benitez probabilmente – ha aggiunto Conte – getta un po’ di fumo negli occhi a chi segue la squadra. A differenza del Napoli siamo ancora in Europa». 

Sembra quindi che per Conte, esista una sorta di grazia di Stato offerta dal primato, che pone chi è un testa al di sopra di tutti gli altri, su un livello diverso. Come il Mike Buongiorno di Umberto Eco ne “Il superuomo di massa” Conte mi pare inconsapevole della morale che esprime, in questa come in altre occasioni. Quando aveva avuto problemi con la giustizia sportiva, a torto o a ragione, Conte ci aveva regalato quel capolavoro che passerà alla storia – anche grazie a Crozza – come la conferenza stampa dell’“agghiacciande signori!”. Agghiaggiande, per lui, era non vedere riconosciuto il proprio punto di vista, Agghiaggiande era – in sostanza – essere giudicato. Ma quello – si dirà – era il moto di rabbia di una persona che si sentiva vittima di una ingiustizia, un colorito ruggito di orgoglio. Forse. Eppure, se due coincidenze fanno un indizio, questa invettiva contro il Napoli rivela molto più di quello che il tecnico immagina: la trascrizione concettuale di quella equazione, infatti, è che essendo la Juve vincente e in Napoli perdente, il Napoli è meno legittimato della sua rivale: ed è minato nella sua credibilità di squadra dall’avere diciassette punti in meno in classifica della squadra bianconera, e dall’aver mancato, con imperdonabile leggerezza, la qualificazione in coppa, per di più con l’aggravante – secondo Conte di aver speso 100 milioni di euro. Senza nessuna consapevolezza, ripeto, Conte esprime con mirabile rozzezza, una morale maggioritaria che è figlia di questo tempo: chi vince vince perché ha ragione, chi vince merita, chi vince ha diritto di esprimere la rappresentanza, perché chi ha perso ha dentro di se una cifra di errore che ha prodotto la sua disfatta.

Quindi chi vince è legittimato, chi non vince non è legittimato. Chi vince è utile, chi non vince è inutile. Anche i bulli che si affollano sul web reclamano questa ragione, quella di essere più forti di quelli che mettono al tappeto. Anche in tanti altri campi della vita italiana vive questa idea, magari espressa con meno brutalità, ma esiste. “Fuori i tromboni”, titola il Giornale contro i professori e i costituzionalisti rei di opporsi alla cancellazione del Senato, quindi tromboni. E anche Matteo Renzi, parlando contro il presidente del Senato Piero Grasso, che si era permesso di criticare il suo disegno di legge di sterilizzazione elettiva del Senato, si è arrabbiato: «Non ho mai visto l’arbitro che gioca». E anche Sergio Marchionne esercita il suo primato da autoproclamato vincitore, criticando addirittura chi sostiene che la Chrysler ha un debito con la Fiat: «Non dobbiamo usare l’arroganza di dire: noi abbiamo salvato te». Si sente trionfatore, il numero uno di Fca, quindi può riscrivere, persino con una punta di fastidio, la storia che lui stesso ci aveva raccontato tre anni fa, quella della Fiat che salva l’azienda americana pagandola un solo euro. Allora Marchionne si sentiva vincente con il tricolore, adesso con la bandiera a stella e strisce: ma si sente sempre sempre – come Antonio Conte – con la stessa sicurezza. 

Sembra insomma che in Italia l’ideologia del maggioritario conferisca ai presunti vincenti una titolarietà di rappresentanza che vive con fastidio anche solo l’idea di incontrare un inciampo sul proprio percorso. Venti anni fa ci si scandalizzava (soprattutto a sinistra) per il “Non mi fanno lavorare” di Silvio Berlusconi, adesso tutti considerano a dir poco un affronto il semplice essere oggetto di critica, la messa in discussione del principio di rappresentanza del più forte di cui Conte è inconsapevole rappresentante. C’è però un dettaglio che dovrebbe far riflettere, almeno nella vicenda dell’allenatore bianconero: quella meravigliosa invettiva l’allenatore bianconero, questa straordinaria celebrazione del primato del vincente, avveniva in un momento particolare: questa splendida rodomonteria veniva pronunciata dopo una sconfitta per due a zero. Perché tutte le ideologie diventano così forti che prima o poi possono permettersi anche il lusso di svincolarsi dalla realtà.