Il Documento di economia e finanza (Def) – del cui testo finalmente disponiamo dopo una ridda di dichiarazioni, bozze (fuori)uscite sul web e ricostruzioni giornalistiche – comincia a mettere nero su bianco i capisaldi della politica economica del governo Renzi. La strategia di fondo è senz’altro condivisibile, le riforme annunciate nella conferenza stampa di qualche settimana fa (quella con i pesci rossi) sono ora sostanziate in un cronoprogramma serrato ma più credibile del precedente, ed emerge una visione coerente per aggredire i problemi dell’Italia nel medio periodo.
Sull’efficacia delle riforme che s’intende attuare, però, il giudizio è necessariamente sospeso (non solo da parte dei gufi, ma anche degli osservatori meno schierati): rimangono troppi nodi sulla natura delle misure annunciate. E un po’ tutti aspettiamo di capire come saranno sciolti con un mix di curiosità, fiducia e scetticismo (in dosi diverse a seconda delle persone e, a volte, dei giorni).
Il Def ribadisce due massime tratte dal breviario del buon riformista degli ultimi anni: (1) ogni riduzione delle tasse deve essere finanziata con misure permanenti per risultare credibile; (2) le privatizzazioni devono servire a ridurre il debito pubblico e non a finanziare manovre correnti. Tutto bene, quindi? Sì e no. Le massime sono valide, ma finora gran parte delle coperture di cui si parla per finanziare il taglio alle imposte sul reddito non arrivano da misure strutturali: la tassazione al 26 per cento (invece del 12 previsto dal governo precedente) delle plusvalenze sulla rivalutazione delle quote Banca d’Italia possedute dalle banche; il gettito Iva derivante dai pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione (che si limita ad anticipare entrate già previste per gli esercizi successivi); e il rimpatrio dei capitali dall’estero. Tutte una tantum. Certo, su questo ha ragione Oscar Giannino: la vera scommessa del governo Renzi sarà quella di sostituire queste una tantum con i risparmi derivanti dalla spending review nei prossimi anni. Le scelte concrete che stanno dietro agli annunciati tagli alla spesa, però, sono ancora sconosciute ai comuni mortali. Auto blu, province, enti inutili, consumi intermedi: tutto bene, ma dopo gli antipasti è l’ora della pastasciutta. Servono scelte concrete (destinate a scontentare qualcuno per forza di cose). Scelte che aspettiamo con lo stato d’animo di cui sopra.
LA PARTITA CON L’UNIONE EUROPEA
Diciamolo pure sottovoce, perché l’espressione non porta bene, ma il governo sembra aver scelto una strategia “in due tempi”, sia verso l’Unione Europea sia nei confronti degli italiani. Rispetto all’Europa, ci si propone di tenere i conti in ordine e di recuperare la credibilità perduta attuando riforme capaci di rilanciare la crescita potenziale. Per poi usare, in un secondo momento, questa nuova credibilità, politica ed economica, per negoziare una maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio. Rispetto agli italiani, si parte da una terapia shock fatta di tagli alle tasse, pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione, riforme istituzionali e riduzioni simboliche dei costi della politica. L’intento è quello di creare fiducia, facendo tornare le famiglie a investire, e di rafforzare un capitale politico che possa poi essere speso, in un secondo tempo, per far passare misure tanto necessarie quanto impopolari.
La strategia dei due tempi, come mi è capitato di argomentare con Angelo Baglioni, è senz’altro giusta rispetto all’Europa. Il governo ha fatto bene a ribadire la volontà di rispettare tutti gli impegni di consolidamento fiscale. Non si mette il carro davanti ai buoi. Incorrere in una procedura d’infrazione a livello europeo, senza la preventiva fiducia dei mercati, sarebbe rischioso per un paese con un debito sopra il 130 per cento del Pil. Solo dopo che gli annunci di riforma si saranno rivelati credibili, si potrà usare i margini di flessibilità che già esistono o negoziarne di nuovi con gli altri Paesi europei.
LE SIRENE DI UN EFFIMERO CONSENSO
La politica dei due tempi nei confronti degli italiani, però, potrebbe rivelarsi insidiosa. Nascondendo i costi di certe riforme sotto il tappeto, per passare indenni le elezioni europee e per accumulare capitale politico, Renzi e il governo rischiano di cadere nella tentazione di rinviare le scelte più dolorose anche in un fantomatico secondo tempo. Almeno questo è quello che è sempre successo in passato. Occorrerà legarsi al palo della nave per non cedere alle sirene di un consenso tanto facile quanto effimero. E un po’ di corda, il governo, dovrebbe iniziare a comprarla da subito.
Fuor di metafora, campagna per le elezioni europee permettendo, non si dovrebbe alimentare l’illusione che le scelte che servono all’Italia siano senza costi per il 99 per cento dei cittadini, e che sia possibile tornare a crescere semplicemente scaricando il conto su politici perdigiorno, manager strapagati e avidi banchieri. La realtà è un po’ più intricata. Per esempio, come hanno spiegato a suo tempo Nicola Borri e Giuseppe Ragusa, gli effetti dell’operazione sulle quote Bankitalia non sono affatto chiari. Portare l’aliquota al 26 per cento, al pari dei normali risparmiatori, va bene, ma i dubbi rimangono. E in base al principio di traslazione dell’imposta, non è chiaro chi finirà per pagare l’aumento. Si vuole davvero far pagare le banche? Si aumenti la concorrenza e la trasparenza del settore e si disegnino strumenti per la tutela del risparmio, piuttosto che cavalcare balzelli dal sapore elettoralistico.
Non solo. Le riforme che servono al Paese non saranno indolori per molti comuni cittadini e potrebbero avere effetti recessivi nel breve periodo (per questo dobbiamo recuperare un po’ di flessibilità nelle politiche di bilancio per compensare i “perdenti” delle riforme come ha fatto a suo tempo la Germania). Giusto per fare un esempio: l’obiettivo del ministro Madia, ribadito nel Def, di ringiovanire la nostra pubblica amministrazione è sacrosanto. Chi ha fatto facili ironie non ha capito che si tratta di un progetto di ristrutturazione aziendale da parte di un datore di lavoro, la nostra Pa, non di una generica politica di staffetta generazionale da parte del governo. Ma per rendere efficace tale ristrutturazione si deve uscire dal vago. Quanto in profondità s’intende rivedere la natura del pubblico impiego per aumentarne la produttività? Quale sistema di valutazione si ha in mente? I “premi legati ai risultati ottenuti” riguarderanno i dipendenti o le strutture? Ha poco senso parlare di “open data” se il tasso di analfabetismo statistico e informatico dei nostri dipendenti pubblici resta alto. (E per alfabetizzazione statistica e informatica, non intendo saper fare la media aritmetica o navigare su internet, ma qualcosa di più.) I concorsi di adesso e i contratti del pubblico impiego sono compatibili con il promesso innalzamento delle competenze? Insomma: molti strumenti di riforma sono tanto necessari quanto costosi, perché impongono sacrifici a dipendenti che hanno formato le proprie aspettative di carriera in un sistema diverso. Si è pronti a fronteggiare qualche opposizione?
Dopo le elezioni europee, forse, capiremo meglio se Renzi è come i leader carismatici che corrono sempre il rischio di finire schiavi della droga rappresentata da quel consenso che riescono così bene a creare, oppure se è un leader politico con una forte visione di dove (e come) condurre il Paese.