La riforma Fornero non ha ridotto i contratti a termine

La riforma Fornero non ha ridotto i contratti a termine

Il Decreto del governo contenente nuove disposizioni in tema di contratti e di regolamentazione del mercato del lavoro, ha introdotto maggiore flessibilità nell’uso dei contatti a tempo determinato, rendendoli acausali e rinnovabili fino a 8 volte in 36 mesi. La ratio dell’intervento via decreto d’urgenza sarebbe la semplice constatazione che la riforma Fornero avrebbe reso l’uso dei contratti temporanei troppo costoso, in modo tale da scoraggiare l’assunzione di giovani e disoccupati. Ma è davvero così?

Dai dati dei flussi contrattuali, parrebbe che in realtà la quota di contratti a tempo determinato sia cresciuta dopo la riforma Fornero, e non di poco. Da una media del 60% di nuovi contratti attivati sotto questa forma, si è passati a quasi il 70%. Piuttosto, sembra che altre tipologie contrattuali, come i contratti di collaborazione, siano stati utilizzati in modo minore, assieme all’apprendistato, che però segue già un trend al ribasso ed è comunque marginale nel nostro mercato del lavoro. Come si vede la quota parte dei contratti a tempo indeterminato attivati e cessati sembra del tutto simile al periodo pre-riforma. Cosa dire invece dell’effetto sul numero totale dei contratti attivati e cessati, ovvero sulla mobilità del mercato del lavoro? Parrebbe che le attivazioni siano calate in valore assoluto, mentre le cessazioni paiono inalterate, ma una volta considerato il ciclo economico, che nello stesso periodo della riforma si è ulteriormente degradato, la correzione al ribasso dei flussi pre e post-riforma sembra piuttosto dovuta a minore domanda di lavoro.

Si può sempre pensare che tale riforma abbia causato un peggioramento della situazione economica, ma almeno in prima battuta è più facile immaginare una relazione causale inversa. Per di più,la spiegazione di tale nesso sarebbe appunto quella che contratti temporanei più rigidi hanno avuto effetti negativi sull’economia per mezzo di minori assunzioni. Visti i dati, e come già argomentato, pare però che la spiegazione non regga. I contratti temporanei sono cresciuti, e hanno spiazzato, sostituendole, altre forme contrattuali, anche a causa di una situazione economica più incerta.

Se le misure del governo per rilanciare gli investimenti esteri – così infatti viene venduta questa pirma parte di Jobs Act – hanno lo scopo di rendere più flessibile un contratto che pare già maggioritario quale via di ingresso al mercato del lavoro, ebbene, si sbaglia il bersaglio. Il problema rimane la scarsa propensione a convertire contratti temporanei in contratti a tempo indeterminato. Ad oggi questo malfunzionamento non è per nulla riformato dalle disposizioni del governo, che sbaglia dunque obiettivo, con l’aggravante che le disposizioni del decreto cozzeranno con le ulteriori misure promesse nel disegno di legge che dovrebbe introdurre il famoso contratto a tutele crescenti.

Che senso ha introdurre un contratto totalmente liberalizzato, che spiazza il resto dei contratti, per poi prevedere una ulteriore forma contrattuale, da qui a poco, con caratteristiche non compatibili rispetto al primo intevento? Il mercato del lavoro è un meccanismo complesso, dove aspettative e incentivi devono essere ben allineati, per far sì che l’allocazione del lavoro funzioni nel miglior modo possibile. Fare una riforma al dì rischia di essere fortemente controproducente. Ciò che comunque preme di più è constatare che la prima vera grande riforma è da apportare all’approccio culturale del disegno delle policy. Valutare attentamente gli effetti delle politiche economiche, prima di decidere, è l’unica via per interventi normativi più efficaci.

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