A furia di fare compromessi per poter piantare una bandierina e cantar vittoria, si rischia di perdere la visione d’insieme. Parliamo della sorte del decreto lavoro tra testo del governo, testo che è uscito dalla commissione lavoro della Camera e nuovo round di discussione al Senato dove cambierà ancora una volta. La politica è certo fatta di compromessi, ma questo è un caso dove il compromesso eccessivo contrasta con il principio di base che dovrebbe essere quello di fare qualcosa di utile.
Il decreto legge sul lavoro è improntato all’esigenza di affrontare in fretta il problema della disoccupazione con la semplificazione del contratto a termine e dell’apprendistato. Nel frattempo la legge delega lascia alla discussione parlamentare gli argomenti più importanti e delicati: la riforma del contratto a tempo indeterminato (che deve essere incentivato rispetto ai contratti a termine), degli ammortizzatori e dei servizi all’impiego.
Le reazioni al decreto del Pd che ha inteso la liberalizzazione del contratto a termine come una sconfitta è stata: cancelliamo il decreto perché la liberalizzazione dei contratti a termine impedisce di semplificare il contratto a tempo indeterminato inteso in qualche modo come contratto unico in sostituzione dei contratti a termine stessi. Di qui non solo i tentativi di ridurre il numero di proroghe ai contratti a termine (il che è giusto) ma anche la volontà di reintrodurre i vincoli all’apprendistato (il che è sbagliato).
Rispetto alla situazione precedente, il decreto estende da uno a tre anni la durata del contratto di lavoro a tempo determinato senza causale, ovvero senza ragione dell’assunzione. Il testo approvato dal governo prevedeva un massimo di otto proroghe contrattuali in 36 mesi, la commissione ha abbassato il tetto a cinque proroghe. I lavoratori “a termine” non possono però superare il limite del 20% degli assunti a tempo indeterminato in ciascuna azienda (1 per le imprese fino a 5 dipendenti). Se si supera il limite, i contratti in eccesso si considerano a tempo indeterminato.
Tutto sommato le variazioni della commissione al testo del governo sul contratto a termine sono condivisibili. Poiché però i limiti sui contratti a termine non sono bastati per poter trovare un compromesso ci si è accaniti di nuovo sull’apprendistato.
Il testo del decreto cancellava anche alcuni vincoli sull’apprendistato: l’obbligo di formazione anche fuori dall’azienda e di assumere parte degli apprendisti per prenderne altri. La commissione ha ripristinato l’obbligo di un piano formativo individuale in forma scritta, e stabilisce che le aziende con più di 30 dipendenti possono prendere altri apprendisti solo dopo aver assunto il 20% dei precedenti. In più si stabilisce nuovamente che accanto alla formazione aziendale ci debba essere anche quella pubblica. Si sostiene che ci debba essere la formazione pubblica per non violare le regole europee, mentre questo argomento è falso (vedi qui).La verità è che si vuole favorire i soliti monopolisti (regioni, enti bilaterali, sindacati) della formazione professionale esterna, anche a costo di penalizzare l’occupazione dei giovani.
I vincoli posti nuovamente in capo al contratto di apprendistato sono assai controproducenti. L’apprendistato non ha mai funzionato (solo il 3% delle assunzioni avviene con l’apprendistato), o lo si semplifica radicalmente oppure non ha senso continuare a cambiarne le regole da una parte facendolo oggetto di compromesso politico dall’altra ostacolandolo a favore di un contratto unico a tempo indeterminato (se mai verrà).
Se le aziende non fanno contratti di apprendistato, non ha senso sostenere che per principio ci deve essere un piano formativo scritto o una formazione pubblica. Iniziamo ad farlo funzionare e poi vediamo. Se si vuole davvero riformare il contratto a tempo indeterminato non si può pensare che sia alternativo né ai contratti a termine né all’apprendistato. Si devono semplificare entrambi e poi pensare ad incentivare il contratto a tempo indeterminato.
La sensazione è che ci si concentri sul decreto legge per intestarsi una vittoria politica del tutto effimera senza invece puntare a impostare riforme importanti contenute nella legge delega. Giocando la partita del Jobs Act tra chi liberalizza di più i contratti a termine e chi li liberalizza di meno, si rischia di non arrivare mai alla discussione della riforma del contratto a tempo indeterminato: si chiude la partita con un compromesso che cambia poco o niente della situazione attuale e ci si dimentica del progetto d’insieme.