La crisi è finita. Chi ha partecipato alle riunioni a porte chiuse durante il meeting di primavera del Fondo monetario internazionale, racconta di aver sentito una musica nuova, per la prima volta negli ultimi sette anni. I segnali sono gli stessi ovunque e tutti positivi, nessuno va controcorrente e si può dire che è cominciato davvero un nuovo ciclo. Il dibattito a Washington ha riguardato semmai la forza propulsiva, la probabile durata (anche se resta sempre una scommessa) e la natura della crescita. Si va dal pessimismo dell’intelligenza alla Lawrence Summers che arriva a prevedere per l’intero Occidente una lunga stagnazione, all’ottimismo volontaristico di Christine Lagarde che incita Mario Draghi a seguire la politica monetaria americana. Negli Stati Uniti ha funzionato (si può discutere fino a che punto e fino a quando, ma non si può negare la sua efficacia congiunturale). E bisogna riconoscere che ha funzionato anche la politica fiscale keynesiana utilizzata sia negli Usa sia in Germania (nonostante la fedeltà a parole alla ortodossia della scuola austro-tedesca).
Si è risposto alla recessione innanzitutto aumentando il debito pubblico e riducendo quello privato, poi è arrivata la ripresa, la disoccupazione è scesa e adesso, a mano a mano che rientra il disavanzo statale, si ridimensiona anche il debito. Berlino ha fatto meglio di Washington dal lato dei conti pubblici, però gli americani possono contare su alcuni vantaggi che mancano a tutti gli altri: il primato tecnologico, la rivoluzione energetica, il ritorno della manifattura, la gestione autonoma e flessibile del dollaro, la centralità nella intermediazione dei capitali. Ci sono, invece, intere aree del mondo nelle quali il circolo virtuoso non è stato ancora innescato.
La crisi è finita, infatti, ma non per tutti nello stesso modo. I Paesi mediterranei sono vagoni di coda. È vero, anche per loro il prodotto lordo ha il segno più, ma resta nel territorio dello zero virgola, quello dell’errore statistico. La ripresa sta aprendo una opportunità, però la finestra rischia di chiudersi rapidamente. «Non abbiamo molto tempo», ha detto Pier Carlo Padoan, già capo economista dell’Ocse e oggi ministro dell’economia nel governo Renzi. Il suo timore è che un consolidarsi della congiuntura negli Stati Uniti induca la Federal Reserve ad aumentare i tassi di interesse. Per l’Italia super indebitata sarebbe un altro guaio, mentre si profila un nuovo spettro all’orizzonte, cioè che la continua discesa dei prezzi al consumo porti a una vera e prolungata deflazione. Anche per questo la Lagarde ha chiesto a Draghi di passare dalle parole ai fatti. Non basta più dire “faremo tutto il possibile”, bisogna farlo e subito perché invertire la tendenza dei prezzi richiede molto tempo, non si tratta di cambiare le aspettative di chi specula contro l’euro, occorre agire su milioni e milioni di giocatori con interessi diversi. La deflazione sarebbe un colpo pesante per la tartaruga Europa, ma sull’Italia avrebbe un effetto devastante: il debito pubblico peggiorerebbe in modo automatico spingendo Bruxelles e Francoforte a pretendere una stretta che imprimerebbe un micidiale impulso recessivo.
La crisi è finita, dunque, ma ha accorciato la variabile tempo. Per l’Italia è cruciale e ciò rende il piè veloce Matteo (Renzi) più utile in questa fase rispetto a Enrico (Letta) il temporeggiatore, lo ha capito anche Eugenio Scalfari e questo è il senso della sua omelia pasquale. Letta voleva prima consolidare il bilancio pubblico per poi usare la leva a sua disposizione nel semestre europeo; Renzi ha intuito che attendere era un errore, s’è mosso subito e, dritto come un fuso, ha chiesto a Bruxelles un rinvio per il pareggio di bilancio. In cambio, ha offerto un percorso di riforme che comincerà a dare i primi effetti veri tra un anno. Se la Ue non ci crede si farà sentire, ma la nuova Commissione nasce senza i riflessi pavloviani dei Barroso e dei van Rompuy e, in ogni caso, gli eurocrati non hanno scelta, dovranno fare di necessità virtù vigilando sul rispetto delle promesse riformatrici. E non solo in Italia.
Perché la crisi è finita, ma la grande transizione dalla turbofinanza alla terza rivoluzione industriale è solo cominciata. I sette anni di vacche magre hanno reso ancor più magro chi non è stato in grado di adattarsi al nuovo ambiente, esattamente come in ogni salto della distruzione creatrice. Se volessimo fare una classifica dei vincitori, dovremmo mettere sul podio il mondo anglo-sassone e la Cina. Diciamo mondo anglo-sassone perchè hanno reagito in modo rapido e pragmatico non solo gli Stati Uniti, ma il Canada, l’Australia e la Gran Bretagna. Quanto al grande dragone, ha cambiato passo però non si è fermato: la decade di Xi Jinping e Li Keqiang sarà segnata dal rafforzamento del mercato interno, dalla modernizzazione delle istituzioni finanziarie e da un vero welfare con un modello misto pubblico-privato, dunque né europeo né americano.
In seconda fila troviamo la Germania: solida e stabile, ha protetto il proprio modello produttivo, spostandolo sempre di più nella fascia alta, e con coraggio ha riformato il mercato del lavoro e lo stato sociale. Più indietro è rimasta nelle banche, il cui potere si è confermato enorme, tanto da condizionare la politica di Angela Merkel e dei suoi alleati, sia socialdemocratici sia liberali. Si è detto e scritto sui vantaggi che Berlino ha saputo trarre dalla propria posizione a scapito di altri paesi dell’area euro. Una critica fondata perché il mercato dei capitali, che funziona come un sistema di vasi comunicanti, ha premiato i tedeschi e punito greci, italiani, spagnoli. Qui è emerso tutto il limite della grande incompiuta (la moneta senza sovrano); mentre il rischio di una frattura è stato rinviato grazie alla Bce di Mario Draghi, ma non scongiurato. Tuttavia, persino chi ritiene la Germania un nemico non può essere così sciocco da ignorare i suoi punti di forza.
Il Giappone che Shinzo Abe ha cercato di scuotere dal torpore si sta rimettendo in carreggiata, ma troppo lentamente. Più che di uno shock congiunturale, il Paese avrebbe bisogno di un mutamento strutturale. Una popolazione vecchia, ricca e soddisfatta, una nazione chiusa in se stessa, la mancanza dell’energia creativa degli immigrati (grande punto nei Paesi anglo-sassoni), un’oligarchia dell’industria e della finanza spesso esangue, una nomenclatura politica che si autoconserva, tutto ciò impedisce ancora il ritorno del Sol levante agli antichi splendori.
I Brics (ammesso che fossero davvero una entità omogenea) si sono separati. Brasile e India si confermano eterne promesse che non diventano realtà per i limiti del loro sistema politico e istituzionale e l’incertezza riformatrice (un passo avanti e due indietro accompagna la loro storia nel secondo dopoguerra). La Russia di Putin è stata definita neo-imperiale, in realtà sembra rosa da una prosopopea nazionalista che le impedisce di compiere il passo decisivo da una monocoltura economica basata sulle materie prime (modello da terzo mondo) alla industrializzazione diffusa e moderna. Colpisce davvero che ancor oggi non esista un prodotto russo apprezzato sul mercato mondiale (se si esclude il kalashnikov).
L’Italia si è frantumata. I grandi gruppi privati sono finiti all’estero, alcuni sono stati comprati, altri sono sempre più multinazionali (Fiat, Pesenti, Pirelli). L’industria esportatrice è divisa tra il quarto capitalismo più forte e competitivo e una media impresa che non fa sistema, quindi arranca. Anche i distretti sono spaccati tra chi ha conquistato le nicchie d’eccellenza e chi aspetta che la pubblica amministrazione paghi i debiti. Intanto, il paradigma internet scuote i servizi (dalle banche alla logistica) che sono la palla al piede del Paese e determinano (loro non l’industria) il crollo della produttività.
È vero, l’Italia ha sofferto per la lunga recessione, ma osservandola, come sto facendo io in questa Pasqua, da quel nord Europa che ha superato la crisi, appare chiaro che ancora una volta ha tentato di posporre il momento della verità. Sì, qui ragionano così e sono convinti che gli alti lai sui tagli lineari di Giulio Tremonti, sulla stangata di Mario Monti, sulla cautela di Enrico Letta, abbiano coperto l’eterna furbizia di un Paese satollo e conservatore, che rischia di costare molto cara, esattamente come è avvenuto molte, troppe volte. Il debito italiano è nato rinviando il conto delle riforme sociali varate alla fine degli anni ’70. Ora l’euro impedisce di usare questo escamotage, tuttavia un cambio di aspettative, l’afflusso benefico di capitali dall’estero, il traino del commercio mondiale, un po’ di lenitivo spalmato sulle ferite da un governo affamato di consensi, tutto ciò crea l’illusione di poter spostare in avanti l’appuntamento con le scelte inevitabili: far nascere un mercato del lavoro sul modello nord-europeo (qui non resta che copiare, la flexicurity funziona e si sta rivelando anche equa); ridurre il perimetro della mano pubblica anche nei servizi sociali; scuotere una scuola tanto piena del proprio passato da perdere di vista il futuro; convogliare le risorse disponibili nella promozione di nuove attività tagliando sussidi, sostegni, assistenza che si sono rivelati inefficaci e fonte di clientelismo. È una politica dell’offerta di tipo liberista? Forse, ma vista da Stoccolma come da Berlino, sembra l’unica strada per uscire dalla palude.